• Augusto Cavadi •

In questi ultimi anni la violenza nel mondo, probabilmente, non è aumentata rispetto ai suoi livelli abituali, ma certamente se ne è accresciuta la percezione da parte di noi occidentali. Suppongo di non essere il solo a sentirmi schiacciato come da una lastra di marmo sul petto e ad essere tentato dallo sconforto se non proprio dalla disperazione.
Ognuno di noi tenta di sopravvivere ricorrendo a ciò che gli resta delle proprie risorse spirituali. A cosa può fare appello chi di noi viva una spiritualità laica, sostanzialmente coincidente con la declinazione pratica della filosofia, intesa dunque come riflessione agente e azione riflessiva?
Ad una duplice mossa: cercare di capire come stanno le cose e, man mano, desiderare di adeguare la propria postura nel mondo a ciò che va conoscendo.
Ciò che mi pare di aver capito è che la violenza somigli ad un grande albero di cui vediamo agitarsi rami, foglie, frutti, ma che resiste ai venti per la solidità del suo tronco e ancor più per la profondità delle sue radici.
Gli scontri bellici, i bombardamenti sulle città, le stragi delle popolazioni inermi sono la corona agitata dell’albero o, se si preferisce un’altra immagine, la punta dell’iceberg. A questo primo livello possiamo reagire limitatamente, soprattutto facendo pressione (anche con manifestazioni pubbliche) sui nostri governi che – con qualsiasi etichetta partitica – hanno più volte disatteso l’articolo 11 sul ripudio della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti: tradimento più volte ripetuto dalla proclamazione della Costituzione italiana a oggi. Qui il pericolo è assuefarsi alla cronaca sempre più spietata e inchiodarsi all’idea (per altro insegnataci dalla prima elementare in poi) che lo scontro armato sia l’unico, inevitabile, modo di gestire i conflitti politici. Che tra uccidere ed essere uccisi non ci siano alternative praticabili. Come mai, allo scoppio di una guerra, gli obiettori di coscienza sono sparute minoranze non solo là dove non viene riconosciuto il diritto alla renitenza, ma anche nei Paesi come l’Italia in cui una legislazione avanzatissima lo prevede?
Qui ci spostiamo a un secondo livello dove incontriamo la tesi di quanti vedono nell’attitudine alla militanza armata un aspetto, e in qualche misura un riflesso e un effetto, della cultura patriarcale. Con questa espressione (imperfetta come molte definizioni) non si intende ribadire la vecchia e infondata teoria secondo cui i maschi sarebbero geneticamente portati alla lotta fisica, bensì che in quasi tutte le società attuali la mentalità maschilista (condivisa, e trasmessa alle nuove generazioni, da molti uomini e da molte donne) informa e plasma istituzioni, rapporti economici, costume quotidiano, relazioni di coppia e in famiglia. Con una metafora si potrebbe dire che la violenza sistemica, strutturale, abituale ai danni delle donne (per cui si è potuto affermare che esiste una sola persona più misera del più misero degli sfruttati: sua moglie) costituisca una sorta di palestra in cui (senza volerlo e senza saperlo) ci alleniamo ad anestetizzare la nostra sensibilità per la dignità altrui.
La violenza maschile contro l’altra metà del cielo è dunque la madre di tutte le violenze? Per alcuni anni l’ho ritenuto, ma – soprattutto grazie a mia moglie Adriana – ho intuito che occorra scavare più a fondo, in direzione delle radici, attingendo un terzo livello: l’atteggiamento di violenza spontanea, data per scontata, nei confronti dei cuccioli d’uomo. La “pedagogia nera” – intessuta di divieti, minacce, punizioni fisiche, ricatti affettivi – non può che creare due tipi di soggetti: o passivi, remissivi, perfetti esecutori della “banalità del male” oppure ribelli, prepotenti, sadici, talora in grado di ipnotizzare le folle e dominarle dittatorialmente.
Mentre il rapporto dei genitori verso i figli è segnato da ambiguità – per cui alterniamo violenza e cura, sfruttamento e difesa -, c’è un quarto livello, ancora più vicino alle radici, in cui la nostra postura di padroni onnipotenti si dispiega senza remore né culturali né psicologiche: il livello del nostro rapporto con gli altri animali. Ormai perfino la caccia, in cui permaneva un briciolo di relazione da vivente a vivente, si va estinguendo per lasciare il posto all’anonimato invisibile di immensi prigioni in cui miliardi di esseri senzienti vengono concepiti, partoriti, allevati in condizioni di tortura, macellati senza troppe cautele. Non è un caso che i lager nazisti siano stati progettati e costruiti avendo a modello i mattatoi degli Stati Uniti d’America. Si è tragicamente accettato l’invito orribile di papa Pio XII che, accogliendo in visita i macellai di carni animali in Vaticano, li esortò a considerare le urla di bovini e ovini “non dissimili dai clangori di macchine metalliche”.
La violenza bellica dunque zampilla da una tradizione patriarcale-maschilista che, a sua volta, presuppone una propensione all’abuso (non necessariamente né esclusivamente sessuale) dei minori che attinge la linfa dal terreno invisibile dello sfruttamento impietoso degli altri viventi senzienti. Tutte queste versioni della violenza hanno – ciascuna – un molteplice varietà di cause e di concause, ma (secondo il titolo di un ormai vecchio libro di Mario Capanna) “il fiume della prepotenza” ha una sorgente comune: la follia dell’antropocentrismo. Bibbia, Corano, Modernità tecno-capitalistica, Marxismo, Nazi-fascismo... tutte le principali ideologie in cui noi occidentali ci siamo pensati e rispecchiati hanno in comune la convinzione che l’essere umano (come individuo o come società o come Stato o come specie umana) sia il “centro”, il “padrone” e il “fine” dell’universo*. Detronizzato, con molte ragioni, un Dio rappresentato come il Sovrano dei sovrani terreni, ci siamo gradualmente sostituiti a Lui: l’antropocentrismo è diventato (secondo una formula di Jacques Maritain) antropoteismo. Si tratta di una convinzione così radicata da resistere alle ormai inoppugnabili evidenze scientifiche: per miliardi di anni il cosmo ha fatto a meno dell’homo sapiens demens (come si esprime Edgar Morin) ed è assolutamente certo che lo stesso cosmo sopravviverà a lungo anche dopo la scomparsa dell’umanità dalla faccia del piccolo pianetino confuso fra miliardi di corpi celesti.
Qualora questo errore originario venisse individuato e corretto, potremmo scoprire che – in quanto “figli” e “ospiti” dell’universo – ci tocca (se vogliamo vivere una saggia e serena convivialità) disarmare la nostra postura dominatrice nei confronti degli animali, dei minori, delle donne e più in generale degli altri esseri umani.
Che cosa questo cambiamento di mente, di cuore e di gesti possa comportare, qui ed ora, ciascuno/a di noi potrebbe suggerirlo a sé e agli altri.
Ognuno di noi tenta di sopravvivere ricorrendo a ciò che gli resta delle proprie risorse spirituali. A cosa può fare appello chi di noi viva una spiritualità laica, sostanzialmente coincidente con la declinazione pratica della filosofia, intesa dunque come riflessione agente e azione riflessiva?
Ad una duplice mossa: cercare di capire come stanno le cose e, man mano, desiderare di adeguare la propria postura nel mondo a ciò che va conoscendo.
Ciò che mi pare di aver capito è che la violenza somigli ad un grande albero di cui vediamo agitarsi rami, foglie, frutti, ma che resiste ai venti per la solidità del suo tronco e ancor più per la profondità delle sue radici.
Gli scontri bellici, i bombardamenti sulle città, le stragi delle popolazioni inermi sono la corona agitata dell’albero o, se si preferisce un’altra immagine, la punta dell’iceberg. A questo primo livello possiamo reagire limitatamente, soprattutto facendo pressione (anche con manifestazioni pubbliche) sui nostri governi che – con qualsiasi etichetta partitica – hanno più volte disatteso l’articolo 11 sul ripudio della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti: tradimento più volte ripetuto dalla proclamazione della Costituzione italiana a oggi. Qui il pericolo è assuefarsi alla cronaca sempre più spietata e inchiodarsi all’idea (per altro insegnataci dalla prima elementare in poi) che lo scontro armato sia l’unico, inevitabile, modo di gestire i conflitti politici. Che tra uccidere ed essere uccisi non ci siano alternative praticabili. Come mai, allo scoppio di una guerra, gli obiettori di coscienza sono sparute minoranze non solo là dove non viene riconosciuto il diritto alla renitenza, ma anche nei Paesi come l’Italia in cui una legislazione avanzatissima lo prevede?
Qui ci spostiamo a un secondo livello dove incontriamo la tesi di quanti vedono nell’attitudine alla militanza armata un aspetto, e in qualche misura un riflesso e un effetto, della cultura patriarcale. Con questa espressione (imperfetta come molte definizioni) non si intende ribadire la vecchia e infondata teoria secondo cui i maschi sarebbero geneticamente portati alla lotta fisica, bensì che in quasi tutte le società attuali la mentalità maschilista (condivisa, e trasmessa alle nuove generazioni, da molti uomini e da molte donne) informa e plasma istituzioni, rapporti economici, costume quotidiano, relazioni di coppia e in famiglia. Con una metafora si potrebbe dire che la violenza sistemica, strutturale, abituale ai danni delle donne (per cui si è potuto affermare che esiste una sola persona più misera del più misero degli sfruttati: sua moglie) costituisca una sorta di palestra in cui (senza volerlo e senza saperlo) ci alleniamo ad anestetizzare la nostra sensibilità per la dignità altrui.
La violenza maschile contro l’altra metà del cielo è dunque la madre di tutte le violenze? Per alcuni anni l’ho ritenuto, ma – soprattutto grazie a mia moglie Adriana – ho intuito che occorra scavare più a fondo, in direzione delle radici, attingendo un terzo livello: l’atteggiamento di violenza spontanea, data per scontata, nei confronti dei cuccioli d’uomo. La “pedagogia nera” – intessuta di divieti, minacce, punizioni fisiche, ricatti affettivi – non può che creare due tipi di soggetti: o passivi, remissivi, perfetti esecutori della “banalità del male” oppure ribelli, prepotenti, sadici, talora in grado di ipnotizzare le folle e dominarle dittatorialmente.
Mentre il rapporto dei genitori verso i figli è segnato da ambiguità – per cui alterniamo violenza e cura, sfruttamento e difesa -, c’è un quarto livello, ancora più vicino alle radici, in cui la nostra postura di padroni onnipotenti si dispiega senza remore né culturali né psicologiche: il livello del nostro rapporto con gli altri animali. Ormai perfino la caccia, in cui permaneva un briciolo di relazione da vivente a vivente, si va estinguendo per lasciare il posto all’anonimato invisibile di immensi prigioni in cui miliardi di esseri senzienti vengono concepiti, partoriti, allevati in condizioni di tortura, macellati senza troppe cautele. Non è un caso che i lager nazisti siano stati progettati e costruiti avendo a modello i mattatoi degli Stati Uniti d’America. Si è tragicamente accettato l’invito orribile di papa Pio XII che, accogliendo in visita i macellai di carni animali in Vaticano, li esortò a considerare le urla di bovini e ovini “non dissimili dai clangori di macchine metalliche”.
La violenza bellica dunque zampilla da una tradizione patriarcale-maschilista che, a sua volta, presuppone una propensione all’abuso (non necessariamente né esclusivamente sessuale) dei minori che attinge la linfa dal terreno invisibile dello sfruttamento impietoso degli altri viventi senzienti. Tutte queste versioni della violenza hanno – ciascuna – un molteplice varietà di cause e di concause, ma (secondo il titolo di un ormai vecchio libro di Mario Capanna) “il fiume della prepotenza” ha una sorgente comune: la follia dell’antropocentrismo. Bibbia, Corano, Modernità tecno-capitalistica, Marxismo, Nazi-fascismo... tutte le principali ideologie in cui noi occidentali ci siamo pensati e rispecchiati hanno in comune la convinzione che l’essere umano (come individuo o come società o come Stato o come specie umana) sia il “centro”, il “padrone” e il “fine” dell’universo*. Detronizzato, con molte ragioni, un Dio rappresentato come il Sovrano dei sovrani terreni, ci siamo gradualmente sostituiti a Lui: l’antropocentrismo è diventato (secondo una formula di Jacques Maritain) antropoteismo. Si tratta di una convinzione così radicata da resistere alle ormai inoppugnabili evidenze scientifiche: per miliardi di anni il cosmo ha fatto a meno dell’homo sapiens demens (come si esprime Edgar Morin) ed è assolutamente certo che lo stesso cosmo sopravviverà a lungo anche dopo la scomparsa dell’umanità dalla faccia del piccolo pianetino confuso fra miliardi di corpi celesti.
Qualora questo errore originario venisse individuato e corretto, potremmo scoprire che – in quanto “figli” e “ospiti” dell’universo – ci tocca (se vogliamo vivere una saggia e serena convivialità) disarmare la nostra postura dominatrice nei confronti degli animali, dei minori, delle donne e più in generale degli altri esseri umani.
Che cosa questo cambiamento di mente, di cuore e di gesti possa comportare, qui ed ora, ciascuno/a di noi potrebbe suggerirlo a sé e agli altri.
Augusto Cavadi
(*) Qui mi riferisco non tanto all’antropocentrismo di “posizione” quanto all’antropocentrismo di “rango” o di “specie”: per la distinzione, e i necessari chiarimenti, cfr. F. Azzarello – A. Cavadi, “Dialogo sull’antropocentrismo”, Dialoghi mediterranei, Istituto Euro-arabo, Mazara del Vallo, 2026, 1.


Caro Augusto,
RispondiEliminale tue riflessioni arrivano, come spesso accade quando scrivi, con la forza di chi riesce a nominare ciò che molti di noi percepiscono solo come un dolore diffuso, un peso sul torace che opprime e disorienta. Leggendoti, si ha la sensazione di attraversare strati successivi della violenza: dalle fronde che si agitano nel vento fino alle radici profonde che affondano nella storia, nella cultura, nelle relazioni quotidiane. È un percorso lucido e coraggioso, che non concede sconti e che al tempo stesso invita a un’assunzione personale di responsabilità.
Vorrei offrirti una considerazione che, a mio avviso, potrebbe integrare e ampliare il quadro che hai tracciato, senza contraddirne la struttura. La tua analisi mostra come l’antropocentrismo sia la sorgente originaria di una serie di dominazioni che si riproducono a cascata: sugli animali, sui bambini, sulle donne, fino a incarnarsi nella guerra. È una genealogia che ha la forza della verità. Ma mi sembra che a questa diagnosi manchi un tassello essenziale: la necessità di un nuovo paradigma di convivenza umana.
Per dirlo in modo diretto: non possiamo limitarci a “disarmare” la postura dominatrice; dobbiamo anche trasformare i fondamenti stessi delle nostre società. E uno di questi fondamenti, forse il più pervasivo e silenzioso, è l’idea che l’economia — e dunque il denaro — sia la struttura portante del vivere associato.
Finché la nostra organizzazione collettiva avrà come perno la competizione per risorse scarse, l’accumulo, la rendita e l’illusione che la sicurezza consista nell’avere più di qualcun altro, la violenza continuerà a generarsi, con forme diverse ma con lo stesso meccanismo generativo: lo sguardo utilitaristico sull’altro. È lo stesso sguardo che giustifica lo sfruttamento degli animali, l’autorità punitiva sugli infanti, la subordinazione delle donne, l’addestramento alla virilità bellica e infine il ricorso strutturale alla guerra come “ultima razionalità” dei rapporti tra Stati.
Senza un cambio di paradigma, tutto ciò continuerà a riproporsi, anche se saremo più consapevoli delle sue radici.
Il paradigma alternativo — quello che secondo me si intravede già nella tua analisi ma merita di essere portato in primo piano — sarebbe invece fondato sul principio che ogni essere umano lavori, prima di tutto, al miglioramento dell’umanità stessa. Non al profitto personale, non alla costruzione di potere, non alla difesa di identità chiuse, ma alla crescita collettiva della nostra specie nella sua dimensione più alta: la capacità di cura, di cooperazione, di responsabilità intergenerazionale, di armonia con il vivente.
È un’idea semplice e rivoluzionaria allo stesso tempo: sostituire la logica del denaro con quella dell’evoluzione umana.
Non nel senso utopico di abolire ogni strumento economico — non sarebbe realistico — ma nel senso più concreto di riorientare lo scopo delle strutture che regolano la nostra convivenza. Se le economie fossero disegnate per favorire lo sviluppo etico, culturale, relazionale ed ecologico dell’umanità, molte delle radici che tu descrivi perderebbero la loro linfa.
In questo senso la tua riflessione mi appare come un invito potente a un nuovo umanesimo — non antropocentrico, ma planetario — in cui la nostra specie si riconosca non padrona, ma parte; non centro, ma nodo; non fine ultimo, ma responsabilità vivente.
Ed è proprio dalla consapevolezza di questa responsabilità che può nascere una speranza non ingenua, non consolatoria, ma praticabile.
Una speranza che non elimina il dolore, ma lo attraversa e lo trasforma in gesto.
Ti abbraccio con stima,Salvatore
Mille grazie, Salvatore, per queste preziose integrazioni
RispondiEliminaGrazie di cuore ad Augusto per l'articolo e a Salvatore per le illuminate considerazioni integrative
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