Come è noto, ogni anno il 21 novembre è la "Giornata Mondiale della Filosofia". L'UNESCO ha istituito questo anniversario nel 2002 perché "la filosofia è una disciplina che incoraggia il pensiero critico e indipendente e in grado di favorire una migliore comprensione del mondo, promuovendo la pace e la tolleranza" e ha invitato i governi, le istituzioni che svolgono funzioni educative e le organizzazioni che operano sul territorio a realizzare iniziative che coinvolgano la popolazione in attività di carattere filosofico.
In sintonia con questo invito dell'Unesco la "Casa dell'equità e della bellezza" di Palermo, che dirigo, ha deciso di dedicare un incontro odierno a un tema di particolare attualità, almeno in Italia: il nesso fra filosofia e politica. Ogni filosofia, infatti, ha conseguenze politiche (volute o preterintenzionali): pensiamo, solo per fare un esempio classico, a Platone che immagina la sua Res pubblica (= Stato) in un poderoso "dialogo" e per ben tre volte, a rischio dell'incolumità personale, si reca a Siracusa per tentare di realizzarla, almeno parzialmente.
Non solo ogni filosofia comporta effetti politici, ma ogni politica implica presupposti filosofici (consapevoli o irriflessi): mi sono quasi divertito, nel mio Il Dio dei mafiosi (San Paolo, 2012), a estrarre dai documenti della Lega e da varie dichiarazioni di suoi esponenti la visione-del-mondo (concezione dell'uomo, della società, dello Stato, del divino, della morale, del partito, della famiglia, dell'impegno politico, del lavoro, dello straniero, della donna, degli omosessuali, del popolo, dell'istruzione, della religione...) di questa formazione partitica apparentemente così poco filosoficamente attrezzata.
Se questo nesso fra filosofia e politica è davvero così inscindibile, ogni filosofo che si dichiari "a-politico" o è un ingenuo o è un disonesto.
Tuttavia la filosofia può interagire con la sfera politica in almeno due maniere radicalmente differenti (che, l'opinione comune, tende a identificare).
In un primo senso – il più diffuso – la filosofia è "usata" per dare alla politica una fondazione culturale e per renderla più efficace operativamente. Per intenderci, in questo caso la filosofia si adatta al ruolo di "ideologia", non solo nel senso svalutativo di mascheramento di interessi inconfessabili (in cui Marx bollava come "ideologie" le teorie politiche diverse dalla propria), ma anche nel senso propositivo in cui anche il marxismo ha costituito la base teorica, dottrinaria, del socialismo 'reale' e dei tentativi (sinora abortiti) di comunismo moderno.
Per evitare fraintendimenti, dico subito che la funzione dell'ideologia (in senso positivo, esplicito, costruttivo) non ha nulla di disprezzabile: secondo una formula cara a un mio docente universitario di filosofia, "nelle cose pratiche di somma importanza la cosa più pratica di tutte è una buona teoria". Solo che – dev'essere chiaro – se è ideologia, non è filosofia (in senso proprio).
Invece la filosofia può interagire con la sfera politica anche in una seconda maniera che ne preserva l'originarietà autentica. E' quando la filosofia rinunzia a voler essere "utile" per concentrarsi esclusivamente sulla ricerca del "vero" (qualsiasi cosa significhi per un filosofo la "verità").
In questa angolazione, la filosofia esercita il ruolo di riserva critica (delle ideologie e dei sistemi politico-sociali ad esse legati) e di produzione utopica (di nuovi, possibili, ipotetici scenari).
Quando si configura così, la filosofia risulta inutile (l'utopia non è realizzabile da nessun partito organizzato, da nessun movimento storico: indica una direzione verso cui procedere), anzi fastidiosa (perché individua e addita le contraddizioni interne e le lacune nei vari sistemi ideologico-politici su cui riflette).
Il filosofo in quanto tale sguscia come un'anguilla dalle mani di chi prova a impossessarsene con la seduzione del potere: per questo non di rado dev'essere soppresso con la violenza. Egli vive ai margini, sulla linea di confine del mondo della polis: abbastanza 'dentro' per osservare, soffrire, partecipare, abbastanza 'fuori' per avere la libertà di contestare l'esistente e di immaginare l'improbabile.
Ma è proprio se è dentro/fuori la polis che egli può servire davvero i concittadini e, come Socrate, riconoscere nella sua attività di indagatore molesto l'apporto più urgentemente politico di cui essi hanno bisogno.
Insomma, la filosofia può porsi a servizio dei cittadini, specie nei tempi oscuri della politica, quando riesce a percorrere lo stretto sentiero fra i due abissi dell'indifferenza rispetto alle cose del mondo, da una parte, e della prostituzione ai progetti di questo o di quell'altro schieramento partitico, dall'altra parte.
Fuor di metafora: quando resta fedele al suo compito costitutivo di andare oltre i "veli" dell'apparenza evitando tanto di mostrarsi sdegnosamente estranea alla storia quanto ideologicamente asservita ai poteri dominanti in un determinato periodo storico.
In sintonia con questo invito dell'Unesco la "Casa dell'equità e della bellezza" di Palermo, che dirigo, ha deciso di dedicare un incontro odierno a un tema di particolare attualità, almeno in Italia: il nesso fra filosofia e politica. Ogni filosofia, infatti, ha conseguenze politiche (volute o preterintenzionali): pensiamo, solo per fare un esempio classico, a Platone che immagina la sua Res pubblica (= Stato) in un poderoso "dialogo" e per ben tre volte, a rischio dell'incolumità personale, si reca a Siracusa per tentare di realizzarla, almeno parzialmente.
Non solo ogni filosofia comporta effetti politici, ma ogni politica implica presupposti filosofici (consapevoli o irriflessi): mi sono quasi divertito, nel mio Il Dio dei mafiosi (San Paolo, 2012), a estrarre dai documenti della Lega e da varie dichiarazioni di suoi esponenti la visione-del-mondo (concezione dell'uomo, della società, dello Stato, del divino, della morale, del partito, della famiglia, dell'impegno politico, del lavoro, dello straniero, della donna, degli omosessuali, del popolo, dell'istruzione, della religione...) di questa formazione partitica apparentemente così poco filosoficamente attrezzata.
Se questo nesso fra filosofia e politica è davvero così inscindibile, ogni filosofo che si dichiari "a-politico" o è un ingenuo o è un disonesto.
Tuttavia la filosofia può interagire con la sfera politica in almeno due maniere radicalmente differenti (che, l'opinione comune, tende a identificare).
In un primo senso – il più diffuso – la filosofia è "usata" per dare alla politica una fondazione culturale e per renderla più efficace operativamente. Per intenderci, in questo caso la filosofia si adatta al ruolo di "ideologia", non solo nel senso svalutativo di mascheramento di interessi inconfessabili (in cui Marx bollava come "ideologie" le teorie politiche diverse dalla propria), ma anche nel senso propositivo in cui anche il marxismo ha costituito la base teorica, dottrinaria, del socialismo 'reale' e dei tentativi (sinora abortiti) di comunismo moderno.
Per evitare fraintendimenti, dico subito che la funzione dell'ideologia (in senso positivo, esplicito, costruttivo) non ha nulla di disprezzabile: secondo una formula cara a un mio docente universitario di filosofia, "nelle cose pratiche di somma importanza la cosa più pratica di tutte è una buona teoria". Solo che – dev'essere chiaro – se è ideologia, non è filosofia (in senso proprio).
Invece la filosofia può interagire con la sfera politica anche in una seconda maniera che ne preserva l'originarietà autentica. E' quando la filosofia rinunzia a voler essere "utile" per concentrarsi esclusivamente sulla ricerca del "vero" (qualsiasi cosa significhi per un filosofo la "verità").
In questa angolazione, la filosofia esercita il ruolo di riserva critica (delle ideologie e dei sistemi politico-sociali ad esse legati) e di produzione utopica (di nuovi, possibili, ipotetici scenari).
Quando si configura così, la filosofia risulta inutile (l'utopia non è realizzabile da nessun partito organizzato, da nessun movimento storico: indica una direzione verso cui procedere), anzi fastidiosa (perché individua e addita le contraddizioni interne e le lacune nei vari sistemi ideologico-politici su cui riflette).
Il filosofo in quanto tale sguscia come un'anguilla dalle mani di chi prova a impossessarsene con la seduzione del potere: per questo non di rado dev'essere soppresso con la violenza. Egli vive ai margini, sulla linea di confine del mondo della polis: abbastanza 'dentro' per osservare, soffrire, partecipare, abbastanza 'fuori' per avere la libertà di contestare l'esistente e di immaginare l'improbabile.
Ma è proprio se è dentro/fuori la polis che egli può servire davvero i concittadini e, come Socrate, riconoscere nella sua attività di indagatore molesto l'apporto più urgentemente politico di cui essi hanno bisogno.
Insomma, la filosofia può porsi a servizio dei cittadini, specie nei tempi oscuri della politica, quando riesce a percorrere lo stretto sentiero fra i due abissi dell'indifferenza rispetto alle cose del mondo, da una parte, e della prostituzione ai progetti di questo o di quell'altro schieramento partitico, dall'altra parte.
Fuor di metafora: quando resta fedele al suo compito costitutivo di andare oltre i "veli" dell'apparenza evitando tanto di mostrarsi sdegnosamente estranea alla storia quanto ideologicamente asservita ai poteri dominanti in un determinato periodo storico.
Augusto Cavadi
Da: Zero Zero News
In apertura: illustrazione di Eiko Ojala