• Anna Colaiacovo •

Il risentimento è, oggi, molto diffuso. Per questo è importante analizzarlo, per comprendere il nostro tempo.
Che cos’è il risentimento? È una reazione emotiva che conosciamo tutti, perché a tutti accade di provarla. Nasce dal confronto con l’altro, da un torto subito o che pensiamo di subire. È una specie di rabbia invidiosa che deriva dalla mancanza di qualcosa che si presume di avere il diritto di avere (e che l’altro ha) e dalla propria incapacità di fare qualcosa per averla. Si fonda, infatti, su una percezione di impotenza. Ma, mentre l’invidia può portare ad una reazione costruttiva cioè all’emulazione dell’altra persona, il risentimento porta alla repressione dei sentimenti negativi che si provano (come l’odio, la cattiveria, la malignità), con il risultato che non si reagisce. Da qui la sensazione di impotenza, di inadeguatezza e uno stato di sofferenza a cui ha dato parole Max Scheler, grande fenomenologo tedesco: “il risentimento è un auto avvelenamento dell’anima”.
Come problema sociale, il risentimento è poco presente nelle società organizzate in modo gerarchico in cui ognuno ha un ruolo pre-definito e in cui prevale l’accettazione della propria condizione di vita. Si sviluppa invece nelle società egualitarie dal punto di vista formale, ma in cui, di fatto, esistono enormi differenze tra i cittadini sul piano del potere e della ricchezza. Aumenta, in modo particolare, quando l’ascensore sociale si blocca e una parte consistente della popolazione diventa sempre più povera o comunque perde il proprio status, mentre altri strati sociali avanzano. In questo caso diventa difficile la convivenza dell’idea dell’eguaglianza dei diritti con i principi del liberismo economico, soprattutto in presenza di guerre che assorbono risorse. È quello che è accaduto in Europa negli anni Venti e Trenta del secolo scorso ed è quello che sta accadendo in Occidente nei nostri giorni. Da sottolineare, inoltre, il fatto che il senso di frustrazione e avvilimento che prova chi è alla ricerca di un lavoro, o chi è insoddisfatto perché ha un lavoro precario e sottopagato, non è in grado di produrre, nel nostro tempo, un’azione collettiva. Perché? Perché viviamo in una società individualizzata permeata da una ideologia della privatizzazione. Riteniamo che tutto ciò che accade ai singoli sia responsabilità degli individui stessi e non riuscire a realizzare i propri obiettivi, mentre altri ci riescono, si deve al fatto che non c’è stato un impegno adeguato o non si è stati capaci di fare le scelte giuste. Diventa impossibile scaricare la propria rabbia su un altro soggetto, sia perché è difficile identificarlo, sia perché diventerebbe una ammissione di inadeguatezza. La rabbia però c’è, anche se non viene espressa, e diventa risentimento.
Una caratteristica dei soggetti colpiti dal risentimento è l’auto-vittimizzazione. Gli altri hanno qualcosa che io non ho e che loro non meritano e questo mi fa soffrire: “io sto male, qualcuno deve pur essere responsabile” (Nietzsche). L’indignazione sociale che nasce da questa convinzione non trova però soluzione perché l’oggetto a cui si rivolge è molto vago. La vaghezza è un’altra caratteristica importante del risentimento e spiega perché possa essere direzionato facilmente dai leader populisti per emergere e vincere.
Il problema non è la ricchezza stratosferica nelle mani di pochi, ma diventa l’arrivo di migranti che tolgono risorse senza averne diritto. È la risposta sbagliata a problemi reali, perché non li risolve e, per di più, produce forme di potere autoritarie e indifferenza morale.
Qual è la funzione del risentimento sociale? È una funzione difensiva nei confronti di una realtà che non ha più validi punti di riferimento, che produce incertezza, deprivazione e smarrimento dell’identità personale. La società occidentale si sente, oggi, sotto assedio. Per questo motivo, aumenta il desiderio di ordine, di sicurezza, di stabilità e cresce un atteggiamento mentale caratterizzato dalla difesa del proprio spazio vitale cioè da un “sovranismo psichico” (così definito dal 52esimo rapporto del Censis) che può sfociare in rabbia e cattiveria verso gli altri, fino a mettere in discussione le basi stesse della democrazia liberale.
Che cos’è il risentimento? È una reazione emotiva che conosciamo tutti, perché a tutti accade di provarla. Nasce dal confronto con l’altro, da un torto subito o che pensiamo di subire. È una specie di rabbia invidiosa che deriva dalla mancanza di qualcosa che si presume di avere il diritto di avere (e che l’altro ha) e dalla propria incapacità di fare qualcosa per averla. Si fonda, infatti, su una percezione di impotenza. Ma, mentre l’invidia può portare ad una reazione costruttiva cioè all’emulazione dell’altra persona, il risentimento porta alla repressione dei sentimenti negativi che si provano (come l’odio, la cattiveria, la malignità), con il risultato che non si reagisce. Da qui la sensazione di impotenza, di inadeguatezza e uno stato di sofferenza a cui ha dato parole Max Scheler, grande fenomenologo tedesco: “il risentimento è un auto avvelenamento dell’anima”.
Come problema sociale, il risentimento è poco presente nelle società organizzate in modo gerarchico in cui ognuno ha un ruolo pre-definito e in cui prevale l’accettazione della propria condizione di vita. Si sviluppa invece nelle società egualitarie dal punto di vista formale, ma in cui, di fatto, esistono enormi differenze tra i cittadini sul piano del potere e della ricchezza. Aumenta, in modo particolare, quando l’ascensore sociale si blocca e una parte consistente della popolazione diventa sempre più povera o comunque perde il proprio status, mentre altri strati sociali avanzano. In questo caso diventa difficile la convivenza dell’idea dell’eguaglianza dei diritti con i principi del liberismo economico, soprattutto in presenza di guerre che assorbono risorse. È quello che è accaduto in Europa negli anni Venti e Trenta del secolo scorso ed è quello che sta accadendo in Occidente nei nostri giorni. Da sottolineare, inoltre, il fatto che il senso di frustrazione e avvilimento che prova chi è alla ricerca di un lavoro, o chi è insoddisfatto perché ha un lavoro precario e sottopagato, non è in grado di produrre, nel nostro tempo, un’azione collettiva. Perché? Perché viviamo in una società individualizzata permeata da una ideologia della privatizzazione. Riteniamo che tutto ciò che accade ai singoli sia responsabilità degli individui stessi e non riuscire a realizzare i propri obiettivi, mentre altri ci riescono, si deve al fatto che non c’è stato un impegno adeguato o non si è stati capaci di fare le scelte giuste. Diventa impossibile scaricare la propria rabbia su un altro soggetto, sia perché è difficile identificarlo, sia perché diventerebbe una ammissione di inadeguatezza. La rabbia però c’è, anche se non viene espressa, e diventa risentimento.
Una caratteristica dei soggetti colpiti dal risentimento è l’auto-vittimizzazione. Gli altri hanno qualcosa che io non ho e che loro non meritano e questo mi fa soffrire: “io sto male, qualcuno deve pur essere responsabile” (Nietzsche). L’indignazione sociale che nasce da questa convinzione non trova però soluzione perché l’oggetto a cui si rivolge è molto vago. La vaghezza è un’altra caratteristica importante del risentimento e spiega perché possa essere direzionato facilmente dai leader populisti per emergere e vincere.
Il problema non è la ricchezza stratosferica nelle mani di pochi, ma diventa l’arrivo di migranti che tolgono risorse senza averne diritto. È la risposta sbagliata a problemi reali, perché non li risolve e, per di più, produce forme di potere autoritarie e indifferenza morale.
Qual è la funzione del risentimento sociale? È una funzione difensiva nei confronti di una realtà che non ha più validi punti di riferimento, che produce incertezza, deprivazione e smarrimento dell’identità personale. La società occidentale si sente, oggi, sotto assedio. Per questo motivo, aumenta il desiderio di ordine, di sicurezza, di stabilità e cresce un atteggiamento mentale caratterizzato dalla difesa del proprio spazio vitale cioè da un “sovranismo psichico” (così definito dal 52esimo rapporto del Censis) che può sfociare in rabbia e cattiveria verso gli altri, fino a mettere in discussione le basi stesse della democrazia liberale.
Anna Colaiacovo
In apertura: Brandon Lee in "The Crow" - "Il Corvo", 1994
Interessante. E attuale !
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