Colpisce, nella politica del nostro tempo, la mancanza di una visione ampia e aperta al futuro, come se lo spazio del politico si fosse ridotto alla semplice amministrazione dell'esistente. Colpisce, anche, la carenza di spazi pubblici come luoghi di confronto e di dialogo. Certo, c'è lo spazio della rete, che è, però, più un luogo di attacchi velenosi che di confronto costruttivo.
Fino a che punto è possibile parlare di politica senza una visione del futuro e senza un libero confronto tra gli umani? Hannah Arendt (1906-1974) ha scritto, su questo tema, pagine notevoli che possono aiutarci a capire come funzionano i regimi totalitari e quali rischi corriamo negli stati democratici. Le ha scritte non solo nei suoi libri più famosi come “Le origini del totalitarismo”, “La banalità del male” e “Vita activa”, ma in anche in frammenti sparsi che sono stati ordinati e pubblicati solo nel 1993 a Monaco e, nel 1995, in Italia, con il titolo “Che cos'è la politica?”. Le citazioni seguenti sono tratte dalla versione aggiornata di questo testo (Einaudi, 2006).
Mentre per Aristotele l'uomo è un animale politico, per Arendt:
“L'Uomo è apolitico. La politica nasce tra gli uomini, dunque decisamente al di fuori dell'uomo. Perciò non esiste una sostanza propriamente politica. La politica nasce nell'infra e si afferma come relazione.[…] La politica organizza a priori gli assolutamente diversi in vista di una uguaglianza relativa, e per distinguerli dai relativamente diversi.” (pp. 7-8)
Ogni uomo è assolutamente diverso dall'altro e questa diversità è più grande della diversità relativa tra popoli e nazioni. La libertà dei diversi individui è il presupposto perché si formi uno spazio tra gli uomini (che Arendt chiama infra) che rende possibile la politica. I regimi totalitari distruggono questo spazio, ma anche i sistemi liberali lo minacciano, se pensiamo alla condizione di isolamento dell'uomo nell'attuale società di massa, al conformismo dilagante e al potere della burocrazia: “il dominio burocratico, il dominio mediante l'anonimità degli uffici, che non è meno dispotico perché nessuno lo esercita; al contrario: forse è ancora più terribile, poiché nessuno può parlare o presentare reclamo a quel Nessuno.”
In questa condizione si riduce lo spazio della libera partecipazione politica, mentre cresce l’individualismo; aumenta il rilievo dato al lavoro e alla produzione, diminuisce l’agire interpersonale e comunicativo che determina l’area della politica.
La politica non riguarda l'Uomo, come riteneva Platone, ma una pluralità di uomini che si incontrano in uno spazio che li raccoglie e nello stesso tempo li separa. Questo spazio è il mondo: “Nessuno, da solo e senza compagni, può comprendere adeguatamente e nella sua piena realtà tutto ciò che è obiettivo, in quanto gli si mostra e gli si rivela sempre in un'unica prospettiva, conforme e intrinseca alla sua posizione nel mondo. Se egli vuole vedere ed esperire il mondo per come è realmente può farlo solo considerandolo una cosa che è comune a molti, che sta tra loro, che li separa e li unisce, che si mostra a ognuno in modo diverso, e dunque diviene comprensibile solo se molti ne parlano insieme e si scambiano e confrontano le loro posizioni e prospettive.” (pag. 40)
La capacità politica per eccellenza è, quindi, la capacità di cogliere, di una determinata situazione, quanti più punti di vista sia possibile, in modo da acquisire quello che Kant chiama “pensiero aperto”, la capacità di elevarsi al di sopra delle “condizioni soggettive e individuali del giudizio”. Se, invece, come avviene nella tirannide, svanisce lo spazio pubblico che permette l’incontro di una pluralità di uomini, scompare il mondo. La preoccupazione per questo “mondo in comune” che nasce dalle relazioni umane, dal parlare e dall’agire degli uomini, è pressante in Arendt ed è motivata non solo dalle esperienze dei regimi totalitari, ma anche dallo sviluppo di mezzi distruttivi terribili, come la bomba atomica.
Malgrado tutto, però, è proprio la minaccia della fine che può produrre un nuovo inizio.
Uno dei concetti più interessanti della filosofa è il significato politico che attribuisce alla facoltà di iniziare, per cui il processo storico non può essere definito in senso deterministico perché: “… il mondo si rinnova quotidianamente per nascita, ed è continuamente trascinato nella vastità del nuovo dalla spontaneità dei nuovi venuti. Solo depredando i nuovi nati della loro spontaneità, del loro diritto di iniziare qualcosa di nuovo, il corso del mondo può essere deciso e previsto in senso deterministico”. (pag. 39)
In questa possibilità di sancire un nuovo inizio, oltre che nella possibilità di esprimere la propria opinione nel “mondo in comune”, risiede la libertà, che è il senso della politica. Finché gli uomini possono agire, possono compiere l’imprevedibile, l’improbabile.
Distruggere il mondo significa creare un deserto. Il deserto è stato riconosciuto per la prima volta da Nietzsche che, secondo Arendt, ha compiuto un errore decisivo e lo ha poi trasmesso: il deserto è dentro di noi. Questa idea è, per lei, alla base della psicologia moderna (si riferisce al comportamentismo): “Nel suo tentativo di aiutare gli uomini, la psicologia li aiuta ad adattarsi alle condizioni di vita del deserto. Questo ci priva della nostra sola speranza, la speranza che noi, noi che non veniamo dal deserto ma ci viviamo, siamo in grado di trasformare il deserto in un mondo umano. La psicologia capovolge le cose; infatti è proprio perché soffriamo per le condizioni del deserto che siamo ancora umani, ancora intatti. Il rischio è che diventiamo veri abitatori del deserto, e che lì ci sentiamo a casa.”
Occorre “vivere nel deserto senza conciliarci con esso”. Cercare le oasi come l’amore, l’amicizia, la cultura per poter respirare come singoli individui, ma continuare a preoccuparci e occuparci del “mondo” con passione e coraggio.
Fino a che punto è possibile parlare di politica senza una visione del futuro e senza un libero confronto tra gli umani? Hannah Arendt (1906-1974) ha scritto, su questo tema, pagine notevoli che possono aiutarci a capire come funzionano i regimi totalitari e quali rischi corriamo negli stati democratici. Le ha scritte non solo nei suoi libri più famosi come “Le origini del totalitarismo”, “La banalità del male” e “Vita activa”, ma in anche in frammenti sparsi che sono stati ordinati e pubblicati solo nel 1993 a Monaco e, nel 1995, in Italia, con il titolo “Che cos'è la politica?”. Le citazioni seguenti sono tratte dalla versione aggiornata di questo testo (Einaudi, 2006).
Mentre per Aristotele l'uomo è un animale politico, per Arendt:
“L'Uomo è apolitico. La politica nasce tra gli uomini, dunque decisamente al di fuori dell'uomo. Perciò non esiste una sostanza propriamente politica. La politica nasce nell'infra e si afferma come relazione.[…] La politica organizza a priori gli assolutamente diversi in vista di una uguaglianza relativa, e per distinguerli dai relativamente diversi.” (pp. 7-8)
Ogni uomo è assolutamente diverso dall'altro e questa diversità è più grande della diversità relativa tra popoli e nazioni. La libertà dei diversi individui è il presupposto perché si formi uno spazio tra gli uomini (che Arendt chiama infra) che rende possibile la politica. I regimi totalitari distruggono questo spazio, ma anche i sistemi liberali lo minacciano, se pensiamo alla condizione di isolamento dell'uomo nell'attuale società di massa, al conformismo dilagante e al potere della burocrazia: “il dominio burocratico, il dominio mediante l'anonimità degli uffici, che non è meno dispotico perché nessuno lo esercita; al contrario: forse è ancora più terribile, poiché nessuno può parlare o presentare reclamo a quel Nessuno.”
In questa condizione si riduce lo spazio della libera partecipazione politica, mentre cresce l’individualismo; aumenta il rilievo dato al lavoro e alla produzione, diminuisce l’agire interpersonale e comunicativo che determina l’area della politica.
La politica non riguarda l'Uomo, come riteneva Platone, ma una pluralità di uomini che si incontrano in uno spazio che li raccoglie e nello stesso tempo li separa. Questo spazio è il mondo: “Nessuno, da solo e senza compagni, può comprendere adeguatamente e nella sua piena realtà tutto ciò che è obiettivo, in quanto gli si mostra e gli si rivela sempre in un'unica prospettiva, conforme e intrinseca alla sua posizione nel mondo. Se egli vuole vedere ed esperire il mondo per come è realmente può farlo solo considerandolo una cosa che è comune a molti, che sta tra loro, che li separa e li unisce, che si mostra a ognuno in modo diverso, e dunque diviene comprensibile solo se molti ne parlano insieme e si scambiano e confrontano le loro posizioni e prospettive.” (pag. 40)
La capacità politica per eccellenza è, quindi, la capacità di cogliere, di una determinata situazione, quanti più punti di vista sia possibile, in modo da acquisire quello che Kant chiama “pensiero aperto”, la capacità di elevarsi al di sopra delle “condizioni soggettive e individuali del giudizio”. Se, invece, come avviene nella tirannide, svanisce lo spazio pubblico che permette l’incontro di una pluralità di uomini, scompare il mondo. La preoccupazione per questo “mondo in comune” che nasce dalle relazioni umane, dal parlare e dall’agire degli uomini, è pressante in Arendt ed è motivata non solo dalle esperienze dei regimi totalitari, ma anche dallo sviluppo di mezzi distruttivi terribili, come la bomba atomica.
Malgrado tutto, però, è proprio la minaccia della fine che può produrre un nuovo inizio.
Uno dei concetti più interessanti della filosofa è il significato politico che attribuisce alla facoltà di iniziare, per cui il processo storico non può essere definito in senso deterministico perché: “… il mondo si rinnova quotidianamente per nascita, ed è continuamente trascinato nella vastità del nuovo dalla spontaneità dei nuovi venuti. Solo depredando i nuovi nati della loro spontaneità, del loro diritto di iniziare qualcosa di nuovo, il corso del mondo può essere deciso e previsto in senso deterministico”. (pag. 39)
In questa possibilità di sancire un nuovo inizio, oltre che nella possibilità di esprimere la propria opinione nel “mondo in comune”, risiede la libertà, che è il senso della politica. Finché gli uomini possono agire, possono compiere l’imprevedibile, l’improbabile.
Distruggere il mondo significa creare un deserto. Il deserto è stato riconosciuto per la prima volta da Nietzsche che, secondo Arendt, ha compiuto un errore decisivo e lo ha poi trasmesso: il deserto è dentro di noi. Questa idea è, per lei, alla base della psicologia moderna (si riferisce al comportamentismo): “Nel suo tentativo di aiutare gli uomini, la psicologia li aiuta ad adattarsi alle condizioni di vita del deserto. Questo ci priva della nostra sola speranza, la speranza che noi, noi che non veniamo dal deserto ma ci viviamo, siamo in grado di trasformare il deserto in un mondo umano. La psicologia capovolge le cose; infatti è proprio perché soffriamo per le condizioni del deserto che siamo ancora umani, ancora intatti. Il rischio è che diventiamo veri abitatori del deserto, e che lì ci sentiamo a casa.”
Occorre “vivere nel deserto senza conciliarci con esso”. Cercare le oasi come l’amore, l’amicizia, la cultura per poter respirare come singoli individui, ma continuare a preoccuparci e occuparci del “mondo” con passione e coraggio.
Anna Colaiacovo