MANUALE PER VIP
Rubrica a cura di Augusto Cavadi

Augusto Cavadi, Manuale per Vip
«Eh, no! Mi dispiace. Se vi siete incuriositi a questa nuova rubrica perché immaginate che parli di questo o quel Vip (dall'inglese "very important person"), rimarrete delusi. Niente pettegolezzi, indiscrezioni, dicerie: l'ottanta per cento della carta stampata e delle televisioni ne è già zeppa! Ho voluto scegliere questa sigla, invece, come abbreviazione di "Vivere in pienezza"...»
Dal post introduttivo ►
CENETTE FILOSOFICHE PER NON... FILOSOFI
(DI PROFESSIONE)
Rubrica a cura di Augusto Cavadi

Augusto Cavadi, Cenette Filosofiche
Nel 2003 alcuni partecipanti abituali alle “Vacanze filosofiche” estive¹, e residenti nella stessa città (Palermo), abbiamo esternato il desiderio di incontrarci anche nel corso dell’anno, tra un’estate e l’altra. Da qui l’idea di una cenetta quindicinale presso lo studio legale di uno di noi, Pietro Spalla, che si sarebbe incaricato di far trovare un po’ di prodotti da forno e qualche bevanda. Appuntamento alle ore 20:00 (in martedì alterni) per accogliersi a vicenda e mangiucchiare ciò che si trova sulla tavola: dalle 20:30 alle 22:00, poi, lo svolgimento dell’incontro.

La metodologia che abbiamo adottato è molto semplice: chiunque del gruppo propone un testo che si presti ad essere letto in chiave di filosofia-in-pratica (dunque non solo un classico del pensiero filosofico, ma anche un romanzo o un trattato di psicologia, un saggio di astrofisica o di botanica) e, se la maggioranza lo accetta, diventa nelle settimane successive il testo-base delle conversazioni. In esse non sono graditi gli approfondimenti eruditi (tipici dei seminari universitari) perché si vorrebbe dare spazio alle riflessioni personali, alle risonanze esistenziali e alle incidenze sociopolitiche, suggerite dal testo adottato. Uniche condizioni per la partecipazione: aver letto le pagine del libro che il gruppo si assegna di volta in volta per la riunione successiva (se non si fosse riusciti a farlo in tempo, si è pregati di assistere in silenzio) e intervenire evitando i toni polemici nei confronti dei presenti che abbiano espresso convinzioni, esperienze, ipotesi interpretative differenti dalle proprie².

La pandemia del Covid-19 ha costretto la piccola comunità di ricerca filosofica a sospendere gli incontri in presenza e a sostituirli con sessione in video-conferenza: certamente una riduzione della qualità delle relazioni fra i partecipanti, ma anche l’apertura di possibilità sino a quel momento inesplorate. Così amiche e amici di varie regioni italiane si sono collegati via internet e questa modalità di interazione ha finito col sostituire del tutto le cenette in presenza. Ci si vede direttamente alle 20:30 collegandosi mediante un link che Pietro Spalla trasmette a chiunque faccia richiesta di essere incluso nell’apposita mailing list (spalla.pietro@gmail.com).

La mailing list è diventata, sempre più, un luogo di scambi tra una cenetta e la successiva: scambi di opinioni, di commenti, di suggerimenti bibliografici, di battute umoristiche, di informazioni su eventi culturali... In questa molteplicità di interventi occasionali, non ne mancano alcuni meno estemporanei, di una certa consistenza e di un certo rilievo, che probabilmente meritano di non essere seppelliti nelle ondate di e-mail che si accavallano di giorno in giorno (talora di ora in ora).

Da qui l’idea di aprire in questo blog – www.filosofiaperlavita.it – un’apposita rubrica – “Cenette filosofiche per non... filosofi (di professione)” – che metta a disposizione, per un lasso di tempo più lungo e soprattutto per un pubblico potenzialmente più ampio, i contributi che i sostenitori finanziari della rubrica riterranno opportuno segnalare³.

Augusto Cavadi


¹ Cfr. https://vacanze.filosofiche.it
² Cfr. “Cenette filosofiche” in A. Cavadi, Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova antichissima spiritualità, Diogene Multimedia, Bologna 2016, pp. 282-284.
³ Attualmente i rimborsi delle spese di gestione di questa rubrica sono sostenuti da Caccamo A., Cavadi A., Chiesa L., Cillari E., D’Angelo G., D’Asaro M., Di Falco R., Enia A., Federici G., Galanti M., Gulì A., Leone R., Oddo G., Palazzotto A., Paterni M., Randazzo N., Reddet C., Salvo C., Spalla P., Spalla V., Santagati G., Ugdulena G., Vergani B., Vindigni E. Chi desiderasse aggiungersi al numero dei sostenitori può contattarmi alla e-mail a.cavadi@libero.it

23 dicembre 2018

Che cos'è la politica?

Filosofia per la vita - Hannah Arendt

Colpisce, nella politica del nostro tempo, la mancanza di una visione ampia e aperta al futuro, come se lo spazio del politico si fosse ridotto alla semplice amministrazione dell'esistente. Colpisce, anche, la carenza di spazi pubblici come luoghi di confronto e di dialogo. Certo, c'è lo spazio della rete, che è, però,  più un luogo di attacchi velenosi che di confronto costruttivo.
Fino a che punto è possibile parlare di politica senza una visione del futuro e senza un libero confronto tra gli umani? Hannah Arendt (1906-1974) ha scritto, su questo tema, pagine notevoli che possono aiutarci a capire come  funzionano i regimi totalitari e quali rischi  corriamo negli stati democratici. Le ha scritte non solo nei suoi libri più famosi come “Le origini del totalitarismo”, “La banalità del male” e “Vita activa”, ma in anche in frammenti sparsi che sono stati ordinati e pubblicati solo nel 1993 a Monaco e, nel 1995, in Italia, con il titolo “Che cos'è la politica?”. Le citazioni seguenti sono tratte  dalla versione aggiornata di questo testo (Einaudi, 2006).
Mentre per Aristotele l'uomo è un animale politico, per Arendt:
“L'Uomo è apolitico. La politica nasce tra gli uomini, dunque decisamente al di fuori dell'uomo. Perciò non esiste una sostanza propriamente politica. La politica nasce nell'infra e si afferma come relazione.[…] La politica organizza a priori gli assolutamente diversi in vista di una uguaglianza relativa, e per distinguerli dai relativamente diversi.” (pp. 7-8)
Ogni uomo è assolutamente diverso dall'altro e questa diversità è più grande della diversità relativa tra popoli e nazioni. La libertà dei diversi individui è il presupposto perché si formi uno spazio tra gli uomini (che Arendt chiama infra) che rende possibile la politica. I regimi totalitari distruggono questo spazio, ma anche i sistemi liberali lo minacciano, se pensiamo alla condizione di isolamento dell'uomo nell'attuale società di massa, al conformismo dilagante e al potere della burocrazia: “il dominio burocratico, il dominio mediante l'anonimità degli uffici, che non è meno dispotico perché nessuno lo esercita; al contrario: forse è ancora più terribile, poiché nessuno può parlare o presentare reclamo a quel Nessuno.”
In questa condizione si riduce lo spazio della libera partecipazione politica, mentre cresce l’individualismo; aumenta il rilievo dato al lavoro e alla produzione, diminuisce l’agire interpersonale e comunicativo che determina l’area della politica.
La politica non riguarda l'Uomo, come riteneva Platone, ma una pluralità di uomini che si incontrano in uno spazio che li raccoglie e nello stesso tempo li separa. Questo spazio è il mondo: “Nessuno, da solo e senza compagni, può comprendere adeguatamente e nella sua piena realtà tutto ciò che è obiettivo, in quanto gli si mostra e gli si rivela sempre in un'unica prospettiva, conforme e intrinseca alla sua posizione nel mondo. Se egli vuole vedere ed esperire il mondo per come è realmente può farlo solo considerandolo una cosa che è comune a molti, che sta tra loro, che li separa e li unisce, che si mostra a ognuno in modo diverso, e dunque diviene comprensibile solo se molti ne parlano insieme e si scambiano e confrontano le loro posizioni e prospettive.” (pag. 40)
La capacità  politica per eccellenza è, quindi, la capacità di cogliere, di una determinata situazione, quanti più punti di vista sia possibile, in modo da acquisire quello che Kant chiama “pensiero aperto”, la capacità di elevarsi al di sopra delle “condizioni soggettive e individuali del giudizio”. Se, invece, come avviene nella tirannide, svanisce lo spazio pubblico che permette l’incontro di una pluralità di uomini, scompare il mondo. La preoccupazione per questo “mondo in comune” che nasce dalle relazioni umane, dal parlare e dall’agire degli uomini, è pressante in Arendt ed è motivata non solo dalle esperienze dei regimi totalitari, ma anche dallo sviluppo di mezzi distruttivi terribili, come la bomba atomica.
Malgrado tutto, però, è proprio la minaccia della fine che può produrre un nuovo inizio.
Uno dei concetti più interessanti della filosofa è il significato politico che attribuisce alla facoltà di iniziare, per cui il processo storico non può essere definito in senso deterministico perché: “… il mondo si rinnova quotidianamente per nascita, ed è continuamente trascinato nella vastità del nuovo dalla spontaneità dei nuovi venuti. Solo depredando i nuovi nati della loro spontaneità, del loro diritto di iniziare qualcosa di nuovo, il corso del mondo può essere deciso e previsto in senso deterministico”. (pag. 39)
In questa possibilità di sancire un nuovo inizio, oltre che nella possibilità di esprimere la propria opinione nel “mondo in comune”,  risiede la libertà, che è il senso della politica. Finché  gli uomini possono agire, possono compiere l’imprevedibile, l’improbabile.
Distruggere il mondo  significa creare un deserto. Il deserto è stato riconosciuto per la prima volta da Nietzsche che, secondo Arendt, ha compiuto un errore decisivo e lo ha poi trasmesso: il deserto è dentro di noi. Questa idea è, per lei, alla base della psicologia moderna (si riferisce al comportamentismo): “Nel suo tentativo di aiutare gli uomini, la psicologia li aiuta ad adattarsi alle condizioni di vita del deserto. Questo ci priva della nostra sola speranza, la speranza che noi, noi che non veniamo dal deserto ma ci viviamo, siamo in grado di trasformare il deserto in un mondo umano. La psicologia capovolge le cose; infatti è proprio perché soffriamo per le condizioni del deserto che siamo ancora umani, ancora intatti. Il rischio è che diventiamo veri abitatori del deserto, e che lì ci sentiamo a casa.”
Occorre “vivere nel deserto senza conciliarci con esso”. Cercare le oasi come l’amore, l’amicizia, la cultura per poter respirare come singoli individui, ma continuare a preoccuparci e occuparci del “mondo” con passione e coraggio.


Anna Colaiacovo
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27 settembre 2018

Mauro e Augusto alla ricerca di Dio

Manuale per Vip, rubrica a cura di Augusto Cavadi.
Caro Augusto,
vorrei passarti alcuni appunti sulla fase attuale della mia ricerca di Dio.
Mi pare che sulla questione si possano dare due – e solo due – ipotesi: dio c'è o dio non c'è.
Esaminiamole distintamente.
Prima ipotesi: dio non c'è. Non esiste nessuna entità trascendente, nessuna persona, nessun regolatore-legislatore. In questa ipotesi io vedo due casi:
• Il cosmo, l'universo, tutto ciò che vediamo e non vediamo, esiste semplicemente e ogni cosa si regola in base all'interazione casuale tra tutti gli esseri e senza un senso preciso e le leggi naturali non sono che nostre interpretazioni nel tentativo di dare un senso a ciò che semplicemente è, esiste.
• Tutto ciò che esiste interagisce seguendo precise regole e leggi universali, in un unico sistema in qualche modo (pre)ordinato.
Ma senz'altro se ne possono dare altri.
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21 settembre 2018

Selfie-mania

Filosofia per la vita - René Magritte, Il falso specchio
René Magritte, "Il falso specchio" (1928), olio su tela

Forse Steve Jobs non pensava, inserendo sui suoi smartphone la fotocamera frontale, di dare avvio a comportamenti così compulsivi e diffusi come quelli che vediamo quotidianamente. Fotografarsi e condividere le foto sui social network è diventata, oggi, una vera e propria mania.
Che cosa spinge persone di tutte le età a farsi un selfie nelle condizioni e nei luoghi più impensati? Che senso ha fotografarsi durante un funerale (è accaduto anche questo!) o in una situazione talmente precaria da mettere a rischio la propria vita? Certo, in questi comportamenti la componente narcisistica è molto forte, ma, accanto al bisogno di rappresentazione di sé, c'è un'esigenza altrettanto forte di condivisione sociale. Convivono il bisogno di specchiarsi e di testimoniare la propria presenza agli altri.
C'è, in definitiva, un problema di identità.
Nel processo di costruzione dell'identità, lo stadio dello specchio (studiato da Lacan) è un passaggio fondamentale. L'essere umano, quando nasce, non è dotato, come gli animali, di istinti che  garantiscono l'adattamento al mondo esterno. La relazione con il mondo, tra l'organismo e l'ambiente, è mediata dall'immaginario. Il bambino, tra i sei e i diciotto mesi, di fronte a uno specchio, all'inizio cerca di afferrare l'immagine che gli appare, come se si trattasse di un oggetto reale. Poi si rende conto che è un'immagine. Infine che è la sua immagine, diversa dalla madre che è con lui. In una fase in cui non ha ancora la padronanza del proprio corpo e lo vive come frammentato, il piccolo acquista una prima consapevolezza di sè come un tutto unitario (la propria immagine unificata) attraverso lo sguardo dell'altro, perché è questo sguardo che conferma che è lui.
Ho bisogno dell'altro per diventare me stesso: è questa la pietra angolare dell'identità. Ed è un processo cognitivo e affettivo insieme.
Ma chi sono io? Per dire IO abbiamo bisogno di raddoppiare noi stessi, abbiamo bisogno di un soggetto e di un oggetto: "Laddove mi vedo, non ci sono, dove ci sono, non mi vedo". (Lacan)
Da un lato c'è un corpo-pulsionale, la grande ragione del corpo (Nietzsche), dall'altro l'io immagine.
Ognuno di noi deve confrontarsi con questo doppio e con un'immagine di sè che è intima e nello stesso tempo estranea.
L'illusione narcisistica consiste nel tentativo (disperato) di far coincidere noi stessi con la nostra immagine e nel non riconoscere all'altro da noi una realtà autonoma. Nel mito, infatti, Narciso, del tutto insensibile all'amore di Eco, muore perché sprofonda nell'acqua cercando di congiungersi con la propria immagine.
Il nostro tempo alimenta l'illusione narcisistica. Il mercato globale ha bisogno di consumatori perennemente insoddisfatti (i bisogni non devono avere mai fine), sempre a rischio di perdersi davanti all'eccesso di stimoli a cui sono esposti e sempre più soli  "perché il consumo è un'attività solitaria (è perfino l'archetipo della solitudine) anche quando avviene in compagnia" (Bauman). Ne risulta una società sempre più privatizzata e priva di riferimenti certi, che stimola gli individui a contare solo sulle proprie forze, a percepire gli altri come ostacoli per la propria affermazione e a perseguire il proprio vantaggio personale. Le relazioni, se si creano, devono potersi sciogliere facilmente perché sono un impedimento verso altre opportunità, una limitazione delle libertà.
Nel tempo del capitalismo avanzato, il potere, come ci ha insegnato Foucault, non si presenta più in forma dispotica, ma entra nella vita e si insinua nei meccanismi e nei procedimenti emotivi quotidiani. Si sviluppa all'interno di un fitto reticolo mobile e concreto di rapporti, si trasforma in un potere seduttivo apparentemente innocuo rispetto al passato e prende la forma di regole comportamentali interiorizzate dai singoli. Il potere agisce sugli individui attraverso le "pratiche", perché ognuno di noi diventa quello che è attraverso quello che fa ogni giorno, attraverso i luoghi che abita, i gesti che compie, le relazioni che intreccia, i dispositivi che utilizza.
I dispositivi (cioè qualsiasi cosa abbia la capacità di determinare e orientare pensieri, gesti, comportamenti) con cui abbiamo a che fare quotidianamente ci inducono ad agire in un determinato modo, influiscono sul funzionamento del nostro cervello e ci trasformano. I dispositivi informatici, ad esempio, stanno cambiando radicalmente il nostro modo di vivere e il nostro modo di vivere il tempo, dal momento che non esiste   più una netta distinzione tra tempo del lavoro e tempo libero. Il mercato ci richiede di essere sempre connessi e visibili ed è una richiesta che è ormai diventata una nostra esigenza.
Siamo soggettività che si pensano libere e che in realtà rispondono "liberamente" all'applicazione dei poteri.
La pratica del selfie, in particolare, rivela molto del nostro tempo, di una fase storica in cui l'accessibilità e la condivisione sembrano diventate un "obbligo" e il confine tra pubblico e privato sfuma sempre più. 
Ma rivela soprattutto molto di noi, del nostro bisogno ossessivo di esserci - IO CI SONO! GUARDAMI - che alimenta il dubbio di non esserci, nell'attesa spasmodica di un like.


Anna Colaiacovo
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14 settembre 2018

"Il Dio dei leghisti": incontro con l'autore Augusto Cavadi su "Radio Oltre"

Filosofia per la vita - Radio Oltre

Da "Radio Oltre", la radio web dell'Istituto Francesco Cavazza di Bologna.

«Il ritorno di R.O.C. (Radio Oltre Cultura) ha visto il gradito ritorno in studio di un nostro amico: il filosofo Augusto Cavadi. Augusto, filosofo di strada, come ama definirsi, è su tutto un uomo coraggioso che con il pensiero affronta questioni delicate. Con lui abbiamo parlato del paradosso etico e teologico di chi è sia elettore della Lega e sia un cattolico, partendo dal suo saggio "Il Dio dei leghisti" edito da San Paolo. Qui il podcast».

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13 settembre 2018

Oggetti soggettivi. Pensare le cose

Filosofia per la vita - Oggetti soggettivi

Vi propongo un'interessante iniziativa: una riflessione sul nostro spazio quotidiano. Insieme ad alcuni amici filosofi, prendendo spunto proprio dalla "Filosofia dello spazio quotidiano" ideata da Stefano Zampieri, abbiamo scelto ciascuno un oggetto del nostro quotidiano e abbiamo provato a rifletterci sopra. Questo per dare valore a tutto quello che ci circonda e che troppo spesso non vediamo nemmeno più, sempre intenti a correre e affannarci tutto il tempo.
Per dare uno spazio e un pensiero ai tanti oggetti che fanno parte della nostra vita e per dimostrare che la filosofia fa parte di noi, tutti i giorni e dovunque noi siamo.
Da questo link è possibile scaricare gratuitamente questo primo LINK Book: "Oggetti soggettivi. Pensare le cose". 9 racconti filosofici a cura del gruppo di Link:

http://www.zonafilosofica.it/edizioni2.xhtml

Buona lettura!!!

Stefania Bernabeo
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10 settembre 2018

Cosa possono dare a noi gli immigrati extra-europei?

Filosofia per la vita - Immigrazione
"An Invitation" (Un Invito), dipinto di Favianna Rodriguez

Gli appelli alla scuola per una maggiore sensibilizzazione sulla tematica dell'immigrazione si sono intrecciati, in questi giorni, con nuovi episodi di violenza razzista. E anche in Sicilia: proprio in quell'isola che, da Mazzara del Vallo a Lampedusa, si era caratterizzata in Europa ormai da decenni come modello di accoglienza e di convivenza.
La gravità e la (relativa) novità di questi episodi, lungi dallo scoraggiare gli operatori scolastici (e direi gli educatori in generale), impongono una maggiore concentrazione degli sforzi.
Premessa generale di ogni indicazione più dettagliata è l'avvertenza di non cadere nella trappola dell'emergenzialità. Migrazioni e incontri/scontri di tradizioni culturali non sono fenomeni passeggeri (come miopi politiche poliziesche suppongono), bensì epocali. Dobbiamo attrezzarci per strategie di lungo periodo, senza esaltarci per piccoli progressi né sconfortarci per regressi momentanei. 
In un'ottica lungimirante mi pare che sia fondamentale operare almeno questi due passaggi. Il primo: passare dall'anonimato delle tematiche ai volti concreti. Quando sono invitato in scuole del Settentrione italiano a parlare di mafia e di antimafia, a parte i due o tre colleghi che organizzano la visita, trovo, quasi sempre, un clima di estraneità culturale e di diffidenza emotiva. Quando, però, mi espongo nella mia effettiva umanità, con le cicatrici che la mafia ha provocato nella mia carne di siciliano e anche con la fierezza di conterraneo di tanti eroi civili, di solito il clima cambia: la questione mafiosa perde i contorni astratti e diventa storia vissuta di uno come loro, con gli stessi dubbi e le stesse aspirazioni. Così è stato ogni volta che a scuola abbiamo invitato, con l'aiuto di "Amnesty International", un immigrato a incontrare i ragazzi. La questione si è trasformata in esperienza esistenziale: non date, numeri, normative bensì volti precisi, racconti autobiografici con nomi e cognomi. Allora la conoscenza smantella molti pregiudizi e fa cadere sipari ideologici costruiti su ignoranza atavica.
Ma l'incontro con un immigrato in carne e ossa (o anche con qualche ragazza importata dalle mafie africane per essere venduta sul mercato del sesso e aiutata a uscirne da associazioni come "Il pellegrino della terra" o altri comitati Anti-tratta) è solo un primo passo. Un secondo passo è più radicale: consiste nel capovolgere la prospettiva abituale. Chiedersi non più, o non soltanto, cosa possiamo fare noi europei per i profughi, ma anche cosa possono dare questi immigrati a noi. Apprendiamo dagli addetti ai lavori che i contributi previdenziali di tanti lavoratori stranieri salvano le pensioni di altrettanti lavoratori italiani e persino leghisti incalliti del Nord-Est ricordano a Salvini che gli immigrati sono una risorsa bracciantile per tante industrie in cerca di manodopera. Ma gli immigrati hanno da dare dal punto di vista, oltre che produttivo ed economico, antropologico e culturale. Anche se lo ignoriamo - o lo dimentichiamo facilmente - non pochi di loro hanno diplomi e lauree; conoscono più di una lingua; in ogni caso sono portatori di tradizioni mitiche e simboliche di estremo interesse. Perché non invitarli nelle nostre aule, nei nostri centri sociali, nelle nostre parrocchie a raccontarci le fiabe della loro infanzia, i proverbi dei loro anziani, le ricette della loro cucina, i farmaci naturali in uso nei loro villaggi? Perché non farci insegnare le loro danze e le loro musiche? Perché non farci spiegare come vivono la poligamia, la famiglia patriarcale, la dimensione della fraternità e della sororità estesa a intere tribù? Perché non farci aiutare a vedere l’Occidente con i loro occhi di vinti e colonizzati dagli occidentali? Avvertiamo, comprensibilmente, il desiderio di viaggiare, di andare in Africa equatoriale o in Estremo Oriente: ma perché, intanto, non fruiamo dell'Africa e dell'Asia che sono nelle nostre strade e che bussano alle nostre porte?
Non credo a nessuna ricetta miracolosa. Dunque neppure queste strategie pedagogiche eliminerebbero del tutto razzismo e xenofobia. Ma almeno potrebbero ridurne le manifestazioni e soprattutto modificare la coscienza di chi le mette in atto: ragazzi di Lercara Friddi o famiglie di Partinico alzerebbero i bastoni contro immigrati indifesi non più con senso di superiorità etnica, semmai per complesso di inferiorità intellettuale e morale.


Augusto Cavadi


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8 settembre 2018

Filosofia e spazio per la speranza in un'epoca disperata

Augusto Cavadi
Augusto Cavadi
Quaranta aspiranti filosofi in fila per due col resto di qualcosa. Ognuno dei quaranta partecipanti alla "XXI Settimana filosofica per non... filosofi", svoltasi a Lovere sul lago d'Iseo, ha tratto qualcosa dalle riflessioni sul tema "Lo spazio della speranza nell'epoca della disperazione".
Come sosteneva nel Medioevo San Tommaso d'Aquino, quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur che, grosso modo, corrisponderebbe in italiano a ognuno si porta a casa quanto entra nella sua sporta.
In realtà, come hanno osservato alcuni partecipanti, per la maggior parte  nessuno avverte di essere "disperato". Lo siamo forse "a nostra insaputa"? L'obiezione mi ha dato da pensare.
Forse nel dizionario italiano manca qualcosa che indichi non la perdita della speranza (la di-sperazione), bensì l'assenza radicale della stessa (una sorta di a-sperazione). E questa condizione esistenziale conserva una duplice valenza.
Da una parte, infatti, mi pare che – per riprendere Martin Heidegger – sia sintomo di quella povertà così grande da non consentire di avvertirsi poveri: la generazione immediatamente successiva alla mia non si sente orfana delle grandi narrazioni, dal cristianesimo al marxismo, perché non ha fatto in tempo ad aderirvi, in gioventù, con la passione incondizionata di alcuni di noi. Ma vorrei aggiungere immediatamente dall'altra parte questa assenza radicale di speranza si manifesta o, almeno, si può manifestare, in positivo come presenza al presente, come valorizzazione di ogni giornata, di ogni ora, di ogni momento. E' la grande lezione dei filosofi ellenistici occidentali e dei saggi buddhisti orientali.

Filosofia per la vita - Lovere

C'è un modo per conciliare l'attenzione al pur sfuggente presente e uno sguardo lungo sul futuro che non degeneri in illusione alienante? Ecco una mia seconda notazione: il pensatore marxista (eretico) Ernest Bloch sostiene di sì.
E' possibile, anzi doveroso, anzi inevitabile, coltivare una "utopia concreta": una progettualità orientata al "non ancora" che, però, si basi sull'analisi critica della situazione esistente, del "già". Egli, nella seconda metà del XX secolo, riteneva che tale "utopia concreta" fosse identificabile nel marxismo, a patto che lo si intendesse come sintesi in divenire della sua "corrente calda" (passione profetica risalente alla tradizione biblica) e della sua "corrente fredda" (teoria scientifica della società e della storia elaborata da Marx e Engels): alcuni di noi che non erano marxisti neppure nel Sessantotto, quando sembrava intellettualmente e eticamente obbligatorio esserlo, continuiamo a pensare che questa identificazione blochiana "Ubi Lenin, ibi Jerusalem" non colga nel segno.
Ma siamo, oggi come allora, convinti con Giorgio La Pira e molti altri, che il marxismo, fallimentare come terapia in quanto basato su un'antropologia errata, sia istruttivo – anzi, irrinunciabile – come diagnosi.
E non è l'ultima delle disgrazie dei nostri giorni che la Destra più potente e più ignorante della storia occidentale, intendo la Destra che governa alcune zone cruciali del pianeta come gli Stati Uniti d'America e che minaccia di installarsi senza contrappesi in Italia – abbia convinto la stragrande maggioranza della popolazione che marxismo sia sinonimo di totalitarismo regressivo.
Il riferimento a Marx mi suggerisce una terza notazione. Nel corso di un laboratorio serale, Andrea (il giovane filosofo che lo conduceva) ha chiesto di scrivere su un foglietto la risposta a due domande: "Cosa ti manca nella vita? Cosa stai facendo per ottenerlo?". Le risposte di cui si è avuta contezza (le leggevano a voce alta solo i partecipanti che lo decidevano) sono state tutte in chiave soggettivo-esistenziale: "mi manca la capacità di relazionarmi con gli altri", "mi manca la coerenza quotidiana con i miei princìpi etici", "mi manca una passione che mi coinvolga fortemente"...
Nessuna risposta ha riguardato l'ambito sociale-politico. Anche questo dato, a mio avviso, si presta a considerazioni di segno opposto. Di segno negativo: le speranze collettive sembrano tramontate per sempre o, per lo meno, essersi eclissate. Anche nei casi in cui assistiamo ancora con sdegno alle tragedie epocali – dai migranti che annegano a pochi chilometri dalle nostre spiagge, festosamente animate, alle bambine vendute e stuprate per pochi dollari in aree vastissime del pianeta – vi assistiamo con sorda rassegnazione: non vediamo organizzazioni partitiche, sindacali, religiose cui affidare la nostra impotenza individuale per trasformarla in energia collettiva.
Per la verità esistono alcune Organizzazioni non governative che lavorano con sufficiente efficacia, ma – a parte il fatto che per mantenere fiducia in esse è consigliabile non avvicinarsi troppo a osservarne le dinamiche interne e le inevitabili disfunzioni – danno l'impressione di agire solo posticipatamente e settorialmente; laddove si è convinti, più o meno lucidamente, che i drammi planetari attuali vadano affrontati preventivamente e, soprattutto, in un'ottica complessiva.
Tuttavia il tenore delle risposte alle domande di Andrea potrebbe conservare anche una valenza positiva: l'intuizione che le speranze al plurale nascono sempre, e si mantengono in vita, dalle speranze al singolare. Un'intuizione molto responsabilizzante che elide in radice ogni logica di delega: per dirla con Gandhi – che certamente non era un individualista apolitico – ognuno di noi deve impegnarsi ad essere per primo, nella propria sfera personale, il cambiamento che spera per il mondo.
La speranza dell'io non esclude la speranza del noi; anzi, se autentica e intensa, non può che contagiare centrifugamente gli altri. La speranza, che per sua essenza è un atteggiamento del soggetto, può però essere condivisa da altri soggetti sino a diventare, a macchia d'olio, la speranza se non di un popolo di una consistente maggioranza di umani.


Augusto Cavadi


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2 settembre 2018

La filosofia della speranza nell’epoca della disperazione

Augusto Cavadi
Augusto Cavadi
Alla fine del mio ultimo anno di liceo, 1968-69, scelsi la facoltà di filosofia perché pensavo fosse un modo di contribuire a cambiare il mondo. Per fortuna in quegli anni non era impossibile optare per l’insegnamento nei licei: e fu questo un primo ambito di servizio culturale e politico.
Ben presto, però, capii che fuori dalle aule scolastiche c’era molta gente desiderosa di pensare con la propria testa, e di confrontarsi spregiudicatamente con concittadini altrettanto desiderosi di mettersi in gioco: da qui una serie di iniziative che, grossolanamente e un po’ autoironicamente, definisco “filosofia per non... filosofi di professione”.
Mentre batto queste righe al computer sono a Lovere, sulla sponda bergamasca del delizioso lago d’Iseo, dove dal 21 al 27 agosto ho organizzato, col collega e amico di Roma, Elio Rindone, la “XXI Settimana Filosofica per non... filosofi”.

Filosofia per la vita - Lovere
Lovere (BG)

Come ogni anno, anche quest’anno la partecipazione, che cerchiamo di contenere entro quaranta persone, è varia per provenienza geografica, dalla Lombardia alla Sicilia, per età – dai 28 anni ai 96 –, per stato sociale: disoccupati e magistrati, impiegati e insegnanti di varie discipline.
Sin dall’incontro di apertura, in cui ognuno è stato invitato a presentarsi e comunicare brevemente le sue aspettative, si è registrato un diffuso interesse per la tematica prescelta: “lo spazio della speranza nell’epoca della disperazione”.
Per una tragica coincidenza la discussione è partita a pochi giorni dal disastro del ponte di Genova, a poche ore dall’esondazione del fiume nel Pollino e mentre una nave carica di immigrati vagava nel Mediterraneo in attesa che qualche governo si degnasse di accoglierla; più ampiamente in una fase storico-politica italiana e internazionale dove le velleità sovranistiche, un modo eufemistico di ribattezzare i disastrosi nazionalismi del XX secolo, sembrano minacciare quel poco di cooperazione che, faticosamente e non senza contraddizioni, si stava costruendo all’interno dell’Europa e fra Occidente e Oriente.
Ma la speranza, per quanto possa avere echi collettivi, nasce come atteggiamento squisitamente personale: ed è proprio come soggetti individuali che ci troviamo orfani delle “grandi narrazioni” – dalla tradizione ebraica e cristiana al comunismo marxista e alla socialdemocrazia – ed esposti al mistero di un universo sempre più grande di quanto riusciamo a percepirne.
Veramente, per dirla con Malraux, siamo la prima generazione dell’umanità che non sa che cosa ci sta a fare sulla terra. In questo contesto la filosofia non ha né ricette da prescrivere né, tanto meno, consolazioni da distribuire: ciò che può, e vuole, fare è capire la cause di questa situazione spirituale e dunque esaminare criticamente alcune ipotesi per uscirne senza precipitare dalla padella dello smarrimento alla brace dei fondamentalismi dogmatici.
In questa disamina saremo aiutati da tre colleghi che stimiamo molto: Francesco Dipalo, che, attraverso alcuni pensatori occidentali interrogherà il buddhismo, Orlando Franceschelli che, con tutta la vigilanza critica necessaria, darà voce alle ragioni di Nietzsche e Salvatore Fricano che racconterà alcune esistenze filosofiche in cui la speranza è stata incarnata prima che teorizzata.
Insieme alle dichiarazioni di interesse si sono registrate già al primo incontro propedeutico delle riserve di segno contrario: qualcuno ha sinceramente ammesso di essere stato indotto a tornare, più che dal tema specifico, dal desiderio di ritrovare il clima di cordialità amichevole, di autenticità etica e di libertà intellettuale respirato in edizioni precedenti. Qualche altro, Chiara, ha un pò spiazzato l’uditorio confessando di non condividere il titolo della Settimana: perché nell’epoca della disperazione? Se il titolo fosse realistico, lei sarebbe una “disperata a propria insaputa”. Qualche altro ancora ha obiettato che non sarebbe strano: parafrasando Heidegger, si può essere talmente disperati da non sapere neppure di esserlo.
Insomma, come in ogni contesto filosofico non inquinato da diplomazie accademiche, la gamma delle posizioni si è da subito delineata vasta e articolata. Abbiamo visto come si è avviata la riflessione, sapremo in pochi giorni come si concluderà.


Augusto Cavadi


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30 agosto 2018

Scuola di Consulenza Filosofica Phronesis 2018 - 2020

Filosofia per la vita - Phronesis

Sono ancora aperte le iscrizioni alla Scuola di Consulenza Filosofica Phronesis. Iscriviti entro il 31 Agosto!


Phronesis è un'associazione di Consulenti Filosofici professionisti presenti sul territorio nazionale.


Scrivi a: formazione@phronesis-cf.com

...perché pensare bene aiuta a vivere meglio.



Le iscrizioni si chiuderanno il 31 agosto per i pochi posti ancora disponibili.

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5 agosto 2018

Con Miguel Benasayag "Oltre le passioni tristi"



Con un po' di ritardo (!?) è uscito il numero di aprile 2016 della rivista gratuita online "Phronesis", organo dell'Associazione Nazionale dei Consulenti Filosofici. Contiene anche la mia recensione di un libro di Benasayag, Oltre le passioni tristi, che dedico volentieri alle decine di amiche e di amici che incontrerò tra poche settimane (21 - 27 agosto), per la "Vacanza filosofica per non...filosofi" sul tema "Lo spazio della speranza in un'epoca di disperazione", a Lovere (sul Lago d'Iseo).

Augusto Cavadi



Oltre le passioni tristi. Dalla solitudine contemporanea alla creazione condivisa - Miguel Benasayag
La pubblicazione di Sofia e psiche. Consulenza filosofica e psicoterapie a confronto, raccolta di saggi curata da Giorgio Giacometti ed edita nel  2010 da Liguori (Napoli), intese segnare una svolta, almeno in ambito nazionale, nei rapporti fra mondo phi e mondo psi: dalla fase della diffidenza (sostanzialmente reciproca) alla fase della convivenza pacifica (se non addirittura della cooperazione sinergica). Dopo almeno un decennio speso a marcare le differenze epistemologiche fra consulenza filosofica e psicoterapia, sembrò giunto il momento di registrare le affinità e le parziali convergenze operative. Purtroppo la svolta culturale si verificò in una fase sociale economicamente problematica (che perdura sino ai nostri giorni) per cui, da una parte,  la consulenza filosofica come professione ha stentato a decollare e, dall’altra, gli psicoterapeuti (gli psicoanalisti in specie) hanno visto ridursi progressivamente, ma inesorabilmente, la clientela. Insomma la marcia di avvicinamento, avviata nel primo decennio del XXI secolo, non mi pare che abbia fatto grandi passi in avanti: se non altro perché i due fronti o non sono andati avanti o sono addirittura regrediti.
Almeno sul piano epistemologico, se non sul terreno professionale ed operativo, il dialogo però continua e Oltre le passioni tristi. Dalla solitudine contemporanea alla creazione condivisa (Feltrinelli, Milano 2016, pp. 155, euro 18,00) di Miguel Benasayag (con la collaborazione di Angélique del Rey) ne costituisce, oggettivamente, una tappa significativa.
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6 maggio 2018

Per un dialogo sulla vita tra laici e cattolici

Laici e cattolici in bioetica: storia e teoria di un confronto - Giovanni Fornero, Maurizio Mori.
E' solo dal 1970 che, grazie a un saggio dell'oncologo statunitense Van Rensselaer Potter, il termine “bioetica” è entrato – con l'accezione di branca della riflessione etica sui problemi posti dalle varie tappe della vita biologica umana – nel vocabolario comune. Non che, prima, mancassero i trattati di morale “personale”, soprattutto sessuale, in ambito laico e soprattutto religioso; ma l'esplosione delle tecnologie mediche ha comportato una comprensibile enfatizzazione di questo settore interdisciplinare. E non siamo che all'inizio di un percorso terribile e affascinante! A prima vista sembrerebbe logico ipotizzare che quanti si dedicano a queste problematiche possano collaborare sulla base dei dati scientifici e del buon senso comune; ma, a osservare le cose da vicino, non sono andate così. Quando si tratta della nascita e della morte, della pulsione sessuale e della malattia, scienza e buon senso non sono gli unici fattori a entrare in gioco: per fortuna, o per sfortuna, si attivano memorie ancestrali, mitologie archetipiche, tradizioni teologiche, consuetudini etniche, fantasie letterarie, condizionamenti pedagogici, angosce e speranze ugualmente intense e ugualmente difficili da argomentare. Non è strano, perciò, che in bioetica si registrino posizioni differenti, non di rado opposte, tra le quali al cittadino “medio” non è agevole orientarsi. Eppure si tratta di questioni in cui tutti noi, prima o poi, personalmente o in virtù di relazioni familiari, ci imbattiamo: e non sarebbe sintomo di saggezza occuparsene solo nel vivo delle situazioni, quando l'assedio delle emergenze e lo sconvolgimento delle emozioni non favoriscono la ponderazione delle alternative possibili.
Per queste ragioni, all'appuntamento quindicinale delle “Cenette filosofiche per non...filosofi (di professione)” che da molti anni ormai si svolgono presso lo studio dell'avvocato Pietro Spalla a Palermo, i partecipanti si sono assegnati – come testo base per le loro conversazioni serali – il volume (curato da Giovanni Fornero e Maurizio Mori) "Laici e cattolici in bioetica: storia e teoria di un confronto" (Le Lettere, Firenze 2014).
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4 maggio 2018

Una gentilezza amichevole

Byung-Chul Han, Filosofia del buddhismo zen



Dileguato nel giorno
il suono della campana.
Il profumo dei fiori
continua a risuonare.

Bashō



Riflettere filosoficamente sul buddhismo zen è un’impresa quasi disperata. I maestri zen non usano volentieri le parole e, quando le usano, queste si situano tra il detto e il non detto e diventano enigmatiche.
Il filosofo Byung-Chul Han, di origine coreana e di scuola tedesca, nel suo ultimo libro, “Filosofia del buddhismo zen” (nottetempo, 2018), prova a rispondere a questa sfida attraverso un confronto serrato tra i concetti basilari del buddhismo zen e i pensieri dei grandi filosofi dell’Occidente, da Platone ad Heidegger. Un confronto pieno di ostacoli.
Il primo ostacolo riguarda il significato da dare ai termini-concetti utilizzati. Hegel, ad esempio, nell’esaminare il “nulla”, nucleo del pensiero buddhista, lo assimila a Dio. In questo modo il buddhismo diventa una forma di teologia negativa a cui riferire concetti come sostanza, trascendenza, creazione, e a cui manca, secondo Hegel, un aspetto importante, la soggettività. In realtà, sostiene Byung-Chul Han, la mancanza di soggettività non è un limite, ma una caratteristica basilare di questa religione senza Dio. Inoltre il nulla del buddhismo zen non è una sostanza, non è trascendente, non gravita intorno a un centro, non offre un fondamento rassicurante: “Trasformare l’assenza di fondamento in un singolare sostegno e dimora, abitare il nulla, volgere il grande dubbio in un : è in questa svolta singolare che consiste la forza spirituale del buddhismo zen. La via non conduce ad alcuna trascendenza” (pag. 20).
Schopenhauer coglie un’affinità tra la mistica di Meister Eckhard e il buddhismo, ma - incalza Byung-Chul Han - l’idea di Dio che è alla base della visione di Echkard mantiene una sostanzialità e una interiorità soggettiva del tutto estranee al buddhismo zen. L’illuminazione del buddhismo zen non consiste, come nella mistica cristiana, in una totale fusione con Dio, non implica uno stato “estatico” straordinario e una fuga dal mondo, ma una fiducia nel mondo, nella sua multiforme immanenza, e in “una mente svuotata, priva di interiorità”.
L’assenza di interiorità psichica è ben rappresentata, nel libro di  Byung-Chul Han, dagli haiku che sono inseriti in ogni parte del testo. Negli haiku non si esprime la soggettività, ma il mondo così come si manifesta al di fuori di ogni intervento umano.
Gli ostacoli più grandi  per la comprensione del buddhismo zen nascono, per noi occidentali, dal diverso valore che diamo alla vita e alla morte. Mentre per Heidegger l’esistenza quotidiana nasce dalla decisione eroica di uscire dal “semplice lasciarsi vivere”, dal vivere in modo inautentico (il “si fa”, “si dice”), l’illuminazione buddhista è “il risvegliarsi alla vita quotidiana. Ogni ricerca di un straordinario fa smarrire la via. Quel che deve avvenire è un salto nel consueto qui” (pag.41). La vita diventa un soggiornare presso le cose che passano, senza alcun eroismo. L’immersione nella fugacità e l’abbandono dell’io egoistico portano a vivere interamente il momento presente e a diventare liberi per la morte: “dove ci si abbandona alla morte, dove ci si svuota, la morte non è più la mia morte” (pag. 125).
Ma, per comprendere meglio le differenze, torniamo al concetto centrale del buddhismo: la vacuità (sunyata). Mentre il pensiero occidentale si sviluppa intorno al concetto di  sostanza (ciò che sta, resiste e persiste in ogni cambiamento) che identifica ogni cosa e la distingue dall’altra, il buddhismo, attraverso la vacuità, elimina ogni rigida opposizione, per cui “le cose fluttuano liberamente tra presenza e assenza, fra essere e non essere. Non manifestano niente di definitivo. Niente si impone; niente si chiude in sé” (pag. 51).  L’abolizione dei limiti riguarda anche il rapporto “soggetto-oggetto”, tanto caro a noi occidentali: “La  vacuità è una gentile in-differenza nella quale chi guarda è nello stesso tempo ciò che è guardato” (pag. 54).
Il vuoto diventa in questo modo un medium di gentilezza amichevole e il mondo, non più costituito da sostanze, ma da relazioni, diventa un mondo-relazione in cui ognuno rispecchia in sé gli altri. La gentilezza amichevole non è l’atteggiamento gentile di chi è compiaciuto di sé e non è neppure la gentilezza aristocratica di cui parla Nietzsche che presuppone una forte interiorità. L’arcaica gentilezza nasce dal vuoto, svuotato della distinzione tra sé e gli altri: “Il sorriso arcaico, questa profonda espressione della gentilezza amichevole, si desta là dove il volto perde la sua rigidezza e diventa privo di confini, là dove si trasforma in un volto di nessuno” (pag. 155).


Anna Colaiacovo
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11 aprile 2018

Stefano Zampieri, "Filosofia dello spazio quotidiano" - Torino, sabato 14 aprile 2018


Sabato 14 Aprile 2018 ore 14

Stefano Zampieri presenta il suo libro

FILOSOFIA DELLO SPAZIO QUOTIDIANO
La città, la strada, la casa, luoghi e altri non-luoghi
Diogene Multimedia, 2017

presso MOOD Libri e Caffè
via Cesare Battisti 3, Torino

• Ingresso libero •
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17 marzo 2018

Augusto Cavadi e "L'origine del male" di Giada Trapani

L'origine del male. Sul pensiero filosofico dell'ultimo Pareyson. Giada Trapani 2016.
"L'origine del male. Sul pensiero filosofico dell'ultimo Pareyson" (La Zisa, Palermo 2016, pp. 112), di Giada Trapani, si presta almeno a tre prospettive di lettura.
E', infatti, prima di tutto, uno studio su Luigi Pareyson (1918-1991): e, da questa angolazione, ha il merito di evocare uno dei maggiori pensatori italiani del XX secolo, maestro di Umberto Eco e di Gianni Vattimo. Secondariamente è uno studio su una delle fonti principali della meditazione speculativa dello stesso Pareyson: il filosofo Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775-1854), a sua volta uno dei maggiori pensatori del XIX secolo.
Per quanto interessanti, queste prime due angolazioni riguardano direttamente la storia della filosofia e, dunque, intrigano molto di più gli specialisti della disciplina che il lettore "comune". A quest'ultimo, invece, può interessare piuttosto la terza prospettiva da cui questo testo della Trapani si presta a essere letto: la domanda, inquietante e universale (cui si riferisce il titolo stesso della monografia), su "l'origine del male". Ed è su quest'aspetto che mi propongo di dire qualcosa.
Le cronache quotidiane, ma prima ancora la biografia di ciascuno di noi, sono sommerse da eventi dolorosi: bambini che nascono con gravi malformazioni genetiche, individui irresistibilmente attratti dal sadismo e dal masochismo, terremoti e uragani, conflitti tribali e guerre mondiali... Il quadro non si alleggerisce certo se lo sguardo si amplia sino a coinvolgere gli altri animali senzienti della Terra o le catastrofi cosmiche in milioni o forse miliardi di galassie.
Di fronte a questi dati irrefutabili si registrano molte, diversissime, reazioni.
Una prima reazione è il voltarsi dall'altra parte, il decidere di non farci caso. Di non pensarci, almeno sino a quando non veniamo visitati dal male nell'intimità della nostra casa. Pascal parlerebbe della strategia del divertissment. Pareyson accenna a qualcosa di simile quando parla di "nichilismo consolatorio, come forma di eudemonismo" che "va alla ricerca della felicità percorrendo una strada sollevata dal peso della pena e del dolore" (così la Trapani a p. 90).
Un modo simile di non pensarci è di affidarsi a una Volontà superiore che chiamiamo talvolta Destino talvolta Dio: la "rassegnazione" pagana degli stoici o di molte correnti del cristianesimo (da alcuni passi evangelici al fideismo di circoli cattolici e protestanti contemporanei).
Una terza reazione ha trovato in sant'Agostino il suo maestro e in Leibniz il suo esponente estremista: il male c'è, ma come risvolto inevitabile del bene. Agostino: Dio ha voluto creare un essere libero (e la libertà è un bene), ma l'uomo ha usato male la libertà (il peccato è appunto male morale) e, di conseguenza, ha sperimentato la sofferenza (il male fisico come effetto del male morale: l'anima si è ribellata a Dio, il corpo si è ribellato all'anima, l'universo si è ribellato al corpo). Tutta questa tragedia ha costituito la condizione di possibilità dell'incarnazione redentrice: "O felix culpa, quae talem ac tantum meruit habere redemptorem!". Insomma, alla fin dei conti, un mondo con un Dio incarnato per riparare il peccato dell'uomo è un mondo migliore di un mondo senza peccato, senza sofferenze, ma anche senza Cristo. Leibniz va oltre: questo mondo, con i suoi chiaroscuri di bellezza e di bruttezza, non è solo migliore di un mondo senza libertà, ma – dal momento che Dio è sommamente buono e sommamente potente – è "il migliore dei mondi possibili" (l’autrice del saggio ne riferisce alle pp. 66-67).
I tentativi di salvare onnipotenza e assoluta bontà divina non convincono molti pensatori. Si pensi anche solo al cristiano Dostoevskij: per un suo personaggio anche la sofferenza di un solo bambino al mondo metterebbe in discussione la perfezione assoluta di Dio. Ancora più esplicita la concezione  dell'ebreo Hans Jonas: dopo Auschwitz bisogna scegliere fra un Dio onnipotente ma non buono e un Dio buono ma non onnipotente. Siamo a una quarta, possibile, reazione davanti al tema del male nell'universo: Dio, per creare il mondo, si è ritratto (antica dottrina dello zim-zum), lasciando uno spazio alle creature. In quello spazio egli non ha più potestà: accetta il rischio che le cose vadano come devono andare, o come gli uomini vogliono che vadano, senza poter interferire attivamente.
Sia i cristiani Agostino e Leinbiz sia l'ebreo Jonas cercano nella libertà umana la chiave di spiegazione dell'enigma costituito dal male: ma non è questo un orizzonte troppo antropocentrico?  Soprattutto alla luce delle scoperte cosmologiche da Copernico all'astronomia contemporanea, come cercare in un esserino comparso pochi secondi fa la ragion d'essere di sconvolgimenti che hanno interessato l'universo da tempi immemori e, per non andare troppo lontano, gli animali del nostro pianetino (vedi dinosauri) ben prima della comparsa dell'homo sapiens (e, sia pur condizionatamente, liber)? E' sulla base di simili considerazioni che pensatori come Schelling (e come Pareyson che a lui si rifà) ritengono inevitabile allargare enormemente il campo d'indagine e spingersi a cercare l'origine del male, del negativo, in Dio stesso (o comunque si voglia denominare il Fondamento primo e assoluto da cui scaturisce momento per momento tutto ciò che è): non accettano di "affermare che la sola libertà dell'uomo può sostenere l'intero peso del male che dilaga nell'universo", convinti che una visuale solo etica "si rivelerebbe troppo ristretta per un affare così immane e sconvolgente" (p. 101). Il male si squaderna nell'universo non come un imprevisto – più o meno riparabile, più o meno provvidenziale – ma come espressione necessaria di una ferita originaria nel cuore stesso della Sorgente abissale di ogni ente. L'ipotesi interpretativa non è facile da sintetizzare perché si basa sull'intuizione vertiginosa che ci sia "Dio prima di Dio" (p. 103). Schelling infatti distingue, nella sfera del divino, la Persona di Dio da una più radicale, abissale, Natura divina che come un humus primordiale contenente di tutto, tanto di positività quanto di negatività: "La  natura di Dio è il desiderio che prova Dio di generare se stesso, è il volere esistere di Dio. Ma il volere di Dio è privo di luce, di forma, di ordine: è il  «volere nel volere», è la bramosia cieca, il buio dell’irrazionale, il cupo mistero di Dio.[...] Dio esce dall'abisso per divenire Dio vivente, personale e conquista la sua personalità attraverso il suo movimento in cui si realizza la sua libertà.[...] Il principio oscuro e il principio di luce in Dio sono inseparabili" (pp. 56-57). Insomma: "per Pareyson, come per Schelling, il male è nel mondo perché è già in Dio" (p. 58). Tutta questa teoria vorrebbe illuminare ciò che accade ogni giorno sotto i nostri occhi: "La vita, che è conflitto tra il bene e il male, rispecchia l'originaria lotta che è già nell'Assoluto, e la storia degli uomini che diventa strumento e fine della vittoria del positivo sul negativo riverbera l'affermazione che si è compiutamente realizzata eternamente in Dio, e attraverso la quale Dio si costruisce come persona che si fa" (p. 59). Se Dio stesso, in quanto "libertà originaria, ha avuto una profonda radicale esperienza del negativo al punto da averlo vinto e debellato per sempre, ciò significa che Dio stesso non è pensabile se non come contenente in sé il male per quanto questo si mostri già superato e vinto all'interno stesso della positività di Lui"; non è pensabile senza ammettere "una zona d'ombra nella positività originaria stessa" (p. 103). Ma se è inquinata la Sorgente, tutto il corso del ruscello ne risentirà: "Il dolore, l'insopprimibile tristezza umana, la malinconia di ogni vita, la sofferenza, la finitezza della condizione umana, il fatto ampiamente constatabile che il male è contemporaneamente nel cuore di ogni realtà vivente e dell’universo intero, secondo il nostro filosofo, hanno la loro radice proprio in questa zona d'ombra intrinseca alla positività stessa" (ivi).
Non è questo il luogo opportuno per approfondire questa concezione del male, ma almeno un cenno lo si deve all'idea di Dio che essa comporta: un Dio pensato non più come pura Trascendenza, ma come Trascendenza-Immanenza; non monoteisticamente (né tanto meno teisticamente), ma pan-en-teisticamente.
Un'osservazione in margine. Queste opinioni su Dio differiscono molto dall'idea che di Dio mostrava di avere Gesù di Nazareth, almeno se ci basiamo sui  vangeli (canonici ed extra-canonici). Tale differenza può mettere in crisi la fede (nell'accezione abituale del vocabolo) del credente "comune"? Dipende dalla nostra attrezzatura esegetica in campo biblico. Se siamo ancorati a una visione medievale di Gesù come Onnisciente, incaricato di rivelare le verità divine più segrete, quasi una sorta di cassaforte metafisica a disposizione dei teologi, apprendere che egli avesse una concezione di Dio altissima, ma imperfetta, può risultare sconvolgente. Se, invece, alla luce degli studi biblici degli ultimi due secoli, abbiamo riscoperto la vera umanità di Gesù, e dunque abbiamo capito che egli non era un esperto di tematiche speculative ma un maestro di vita, allora le indicazioni più tipicamente evangeliche (riguardanti l'impegno per una società improntata alla sobrietà, alla nonviolenza, alla solidarietà, alla fraternità e così via) resteranno valide, per nulla intaccate. Personalmente, insomma, ho molte riserve sulle teorie pareysoniane circa l'origine del male, ma non mi sognerei di dichiararle eretiche: vanno esaminate e discusse laicamente come laicamente va vagliata ogni teoria filosofica. Eretico, in questo campo, può essere chi viola l’ortoprassi più che l'ortodossia: chi conta di vivere al riparo della sofferenza, anche a costo di seppellirsi nel bunker del proprio privato per non vedere né ascoltare il dolore dell’universo.


Augusto Cavadi
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10 marzo 2018

Esistere è un'arte


Dall'interessante rivista online (gratuita) "Dialoghi mediterranei" a cura dell'Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo (TP), marzo 2018.


COME NOMINARE L'ARTE DI E-SISTERE?

Oggi siamo propensi ad accettare l'intuizione di Democrito: al posto di "atomi" scriviamo corpuscoli, onde o stringhe, ma riteniamo che la stoffa dell'universo sia omologa per minerali, piante, animali. Tuttavia non è agevole scacciare il sospetto che sia rilevante non solo il 'cosa' ma anche il 'come': per riprendere il bistrattato Aristotele, non solo la 'materia' ma anche la 'forma', la struttura, l'organizzazione interna. Nell'uso quotidiano adoperiamo con leggerezza superficiale il verbo 'essere' dimenticando che si tratta di un termine intrinsecamente analogo: "In questa stanza ci sono un tavolo, due piante, un gatto e due persone". Ci sono: ma l'essere si dice pollakòs (in molti modi). E' la constatazione fenomenologica più s-pregiudicata a mostrarci come l'azione, il comportamento, l'interazione con l'ambiente... di un tavolo non siano esattamente identici all'azione, al comportamento, all'interazione con l'ambiente... di una pianta; né di un gatto; né di una persona. Le modalità d'essere in tutti questi casi hanno molto in comune, ma molto altro ancora di differente.

Come esprimere linguisticamente questa articolazione di piani ontologici? Tra le molte possibilità se ne potrebbe adottare una: tutti gli essenti siamo, ma alcuni stanno, sus-sistono, in-sistono; altri e-sistono. Ex-sistere è emergere, eccedere, rispetto al mero essere-qua o essere-là. So bene che non è facile individuare il principio che rende possibile tale ex-sistenza, ma questa difficoltà teoretica non giustifica la soppressione della questione. Una conferma ce l'ha offerta la vicenda dell'esistenzialismo: pensatori teologicamente connotati (come Kierkegaard e Marcel), e pensatori di diverso orientamento (come Jaspers, Heidegger e soprattutto Sartre) si sono trovati concordi nel sostenere l'irriducibilità della e-sistenza al piano della semplice presenza.

a) E-sistere come "privilegio" e come "condanna"
Visitare questo orizzonte teoretico ci impone, o per lo meno suggerisce, alcuni paradossi. Il primo dei quali è che nascere come e-sistenti è un privilegio e una condanna. Un privilegio perché ci è consentito attivare un processo di consapevolezza di sé e del mondo circostante che è la radice di quel poco di libertà che possiamo sperimentare in vita. E' solo grazie alla distanza (potenziale) fra la mia mente e la mia condizione corporea, familiare, sociale... che posso assumere, rinnegare o adattare tale condizione data. E' solo perché e-sisto che posso fare antropologia culturale: sia perché senza questa auto-trascendenza non ci sarebbe un soggetto in grado di narrare (come dall'alto) l'animale culturale che siamo, sia - più radicalmente - perché senza questa auto-trascendenza mancherebbe l'oggetto: non ci sarebbe, infatti, un animale culturale da narrare.
Ma e-sistere è anche una condanna. La pianta può realizzarsi quietamente come pianta, e probabilmente anche la mia gattina come gattina, se si limita a stare, sus-sistere, in-sistere: ma a un nato-per-esistere è precluso di vivere come una pianta o un altro animale. "Sei un broccolo! Non fare il maiale!": affermazioni efficaci sul piano retorico-performativo, ma scorrette semanticamente. Un e-sistente, per quanti sforzi possa fare, non sarà mai semplicemente, serenamente, un vegetale o un suino: sarà un imitatore dei vegetali o dei suini, ne mimerà il comportamento senza poterlo davvero riprodurre. Ammesso che un e-sistente riesca a vivere, da solo o in branco, come un lupo nella foresta – una possibilità su cui solo storici e antropologi culturali possono informare noi filosofi – sarà, comunque, un lupo per scelta: vivrà la condizione naturale come effetto di una (continua) opzione culturale.

b) E-sistere come “compito”
Privilegio e condanna, insieme, e-sistere è in ogni caso un "compito". In un certo senso, il compito del nato-per-esistere. La maggior parte dei mortali svolge questo compito in maniera inconsapevole affidandosi per lo più a due coordinate principali: la tradizione (passato) e la maggioranza (presente). Ci sono poi altri soggetti che, pur consapevoli della tradizione e della maggioranza dei contemporanei, vogliono evitare di restarne prigionieri; vogliono inventare modi originali di e-sistere; vogliono affacciarsi al futuro. Per tentare tutto questo non possono procedere a caso, ma devono attrezzarsi: imparare una tecnica che, alla latina, sarebbe un'arte.

c) Come chiamare l'arte di e-sistere?
Nella storia delle civiltà sono state proposte categorie numerose: l’educazione (paideia), la saggezza, la religione, la filosofia, l'etica, la morale... Ciascuna di queste proposte presenta vantaggi e svantaggi. Nell'attesa di una proposta più convincente, senza contro-indicazioni o con contro-indicazioni limitate, mi sono convinto che – nel contesto linguistico contemporaneo – il semantema meno inadeguato potrebbe essere "spiritualità". So bene che il vocabolo evoca concezioni incomplete o addirittura fuorvianti, ma proprio l'esame di alcuni frequenti malintesi può aiutarci a evidenziare le accezioni semantiche migliori.
Chi nomina la spiritualità spesso pensa a una dimensione meta-materiale, meta-corporea. Ma lo spirito è tale in quanto influssa una carne, la permea e la vivifica: una spiritualità autentica, lungi dall'adagiarsi sui dualismi ontologici e antropologici, ne sanziona il superamento definitivo.
Una vita spirituale, come non può dunque essere sessuofobica, schizzinosa, così non può essere individualistica, intimistica. Secondo Hegel, addirittura, è solo nel "noi" collettivo, sociale, che si manifesta lo spirito in quanto tale. Senza necessariamente aderire al suo collettivismo, non possiamo comunque limitare la spiritualità alla sfera interiore del soggetto: silenzio, raccoglimento, concentrazione sono indispensabili quanto insufficienti. L'apertura all'altro, la relazionalità, sono altrettanto costitutive: senza di esse la dimensione spirituale non ha modo di esercitarsi né di esternarsi.
Né spiritualismi unilaterali, dunque, né solipsismi autistici: ancor meno parassitismi. La persona davvero spirituale, integralmente spirituale, avverte l'esigenza di lasciare un segno nella storia, di fecondare la natura e la società con la propria azione: si pensi soltanto all'insistenza dell'idealista Platone sulla necessità di "procreare nel bello" o mettendo al mondo figli mortali o, più ancora, opere (tendenzialmente) immortali.
Spiritualità equivale, insomma, alla formula di Martha Nussbaum circa la "fioritura della persona": tanto più esistenza spirituale quanto più si attualizzano le proprie potenzialità umane. Un'esistenza spirituale è un'esistenza consapevole, critica rispetto a sé e al contesto sociale, memore del passato ma attenta al presente e proiettata sul futuro, aperta ai godimenti fisici e psichici ma pronta ad affrontare sofferenze proprie e altrui. Nel mio Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova, antichissima spiritualità (2015) ho cercato di articolare, e dettagliare, i lineamenti essenziali di una spiritualità autentica.
La proposta di denominare "spiritualità" l'arte d'e-sistere origina dal desiderio di chiarire che essa non può non avere caratteri di "laicità" e di "polifonicità".
Di laicità perché designa una costellazione di atteggiamenti condivisibili e praticabili, anzi auspicabili, dalle donne e dagli uomini di ogni area del pianeta e di ogni orientamento culturale: per individuarli e tematizzarli basterebbe esercitare, in un'ottica di confronto comunitario, la ragionevolezza non offuscata da eccessivi egoismi. Designa una sorta di galateo universale, di grammatica elementare: là dove una simile base di vita spirituale difetta, è lecito dubitare di chi avverte sentimenti religiosi o di chi professa, addirittura, una fede in senso confessionale. No, senza una "spiritualità" laica, "religiosità" e "religione" degenerano in superstizione e in fondamentalismo.
Di polifonicità: una vita spirituale, in senso laico, non può autointerpretarsi come definita, conchiusa. Costitutivamente parziale, cerca stimoli e integrazioni per correggersi, purificarsi, ampliarsi, approfondirsi: quasi uno strumento musicale consapevole di quanto possa essere valorizzato se inserito in una logica orchestrale. Nessuna tradizione spirituale del mondo può illudersi di essere "la" spiritualità umana: ognuna è piuttosto un piccolo corso d'acqua che porta in sé molto fango e qualche pietra preziosa. Chi si riconosce all'interno di una di queste tradizioni (l'induismo, il buddhismo, la filosofia greca, l'ebraismo, il cristianesimo, l'islamismo, il liberalismo, il socialismo...) ha il compito, dunque, di attivare un'auto-critica, di rinnegare il fango, di recuperare la propria pietra preziosa e di metterla a disposizione di una sintesi (per quanto provvisoria) planetaria. La spiritualità, come arte dell'e-esistere, non è alle nostre spalle. Né, pronta-da-portare, in qualche angolo del nostro presente. E' piuttosto l'u-topia che dà senso alla nostra ricerca, intellettuale ed esperienziale, individuale e collettiva.


Augusto Cavadi
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1 febbraio 2018

Il consulente filosofico sulla Ruota delle Meraviglie

Filosofia per la vita - La ruota delle Meraviglie
Mickey (Justin Timberlake), Ginny (Kate Winslet, al centro) e Carolina (Juno Temple) sul set di "Wonder Wheel" (La Ruota delle Meraviglie), di Woody Allen.


Un interessante contributo
del collega consulente filosofico Antonio Carnicella

Era l’ultimo posto in cui avrei immaginato d’incontrare un collega, al cinema. E non nel cinema, come uno spettatore qualunque, ma proprio sul grande schermo, incarnato da un attore e nel pieno esercizio delle sue funzioni professionali. Che sorpresa. Magari lui non sa di essere un consulente filosofico, ma in quanto filosofo è chiamato in causa da Mickey, voce narrante e co-protagonista di "Wonder Wheel" (La ruota delle meraviglie), l’ultimo film di Woody Allen, alle prese con una scelta complicata.
Sulla spiaggia di Coney Island, nel secondo dopoguerra, l’ex marine e aspirante drammaturgo si guadagna da vivere come marinaio di salvataggio, lavoro che l’ha abituato a guardare dall’alto del suo seggiolone i destini umani. Ma da lassù il Caso, gran cerimoniere di fortune che vanno e vengono come la grande ruota che domina la spiaggia, lo fa cedere al centro di un triangolo sentimentale presentandogli prima Ginny, quarantenne in crisi esistenziale di cui diviene ben presto l’amante, quindi la figliastra di lei, Carolina, di cui s’innamora. Preso tra la passione per la matura ex attrice, cui ha promesso un’altra vita nei mari tropicali, e l’attrazione per la sensuale giovane in fuga dal marito boss della mafia, Mickey capisce che da solo non riesce a tradurre i “geroglifici” attraverso i quali si esprime il suo cuore. Quale delle due donne riportare in salvo? E' qui che entra in ballo l’amico filosofo. I due s’incontrano una sola volta (per esigenze di copione vorremmo dire) ma è risolutiva, tanto che al termine la voce fuori campo del giovane afferma: “è incredibile come guardare le cose da un diverso punto di vista ti faccia stare meglio”.

A rendere interessante Wonder Wheel per la nostra professione è anche il confronto esplicito che la sceneggiatura lascia emergere tra la figura dello psicanalista e quella del filosofo. Mentre la macchina da presa inquadra quest’ultimo di fronte, impegnato in un bar a discorrere con Mickey di amore ed esistenza, la psicologa cui si rivolge Ginny per calmare le intemperanze del figlio piromane chiude più volte la porta del suo studio in faccia sia allo spettatore che al piccolo incendiario. Tutto ciò può sembrare poco, ma se consideriamo che a metterlo in scena è un autore che per cinquant’anni ha flirtato con la Psicoanalisi, allora sembra, in primo luogo, che il messaggio lanciato da Achenbach cominci a diffondersi, quindi che anche l’ottantaduenne regista, oggi alle prese con la campagna #metoo, abbia compiuto quella che Davide Miccione designa come “svolta (filosofica) pratica”.


Stefania Bernabeo
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28 gennaio 2018

"Festival Nazionale della Filosofia d’A-mare" quinta edizione - Castellammare del Golfo (TP), 1-3 Giugno 2018

Filosofia per la vita: Festival Nazionale della Filosofia d’A-mare, quinta edizione, Castellammare del Golfo (TP), 1-3 Giugno 2018

IL GRUPPO EDITORIALE “DI GIROLAMO” DI TRAPANI
LA SCUOLA DI FORMAZIONE ETICO-POLITICA “G. FALCONE” DI PALERMO
LA FATTORIA SOCIALE  “MARTINA E SARA” DI BRUCA (TP)
con il patrocinio del Comune di Castellammare del Golfo (Trapani)

organizzano

la quinta edizione del
FESTIVAL NAZIONALE DELLA FILOSOFIA D’A-MARE
La festa della filosofia di strada per non...filosofi (di professione)
Castellammare del Golfo (Trapani)
Venerdì 1 giugno - Domenica 3 giugno 2018


PROGRAMMA

Venerdì 1 giugno
Ore 14,00 - 18,00: Accoglienza e registrazione dei partecipanti presso l'Hotel Al Madarig.
Ore 18,30 – 19,30: Passeggiata filosofica. Conduce Augusto Cavadi.
Partenza dall’Hotel Al Madarig.
Ore ------- 21,45: La Taranta tra filosofia, musica e danza. Video di Antonino Prestigiacomo, commento filosofico di Alberto Giovanni Biuso, violino di Giorgio Gagliano, canto di Federica Mantero, danza di Linda Mongelli. Presso il Teatro "Apollo - Anton Rocco Guadagno".

Sabato 2 giugno
Ore  8,00 –  9,00: Colazione con i filosofi.
Momento informale presso l’Hotel Al Madarig.
Ore  9,30 – 12,00: Laboratori di con-filosofia. Uno a scelta secondo prenotazione, tutti presso l'Hotel Al Madarig:
Alberto Giovanni Biuso: "Che significa essere pagani, oggi"
Orlando Franceschelli: "Il messaggio etico di Charles Darwin"
Giorgio Gagliano: "Chiedere a Dio di liberarci da Dio"
Chiara Zanella: "Il silenzio come virtù politica"
Marta Mancini: "Il fascismo oggi: quale diagnosi? Quale terapia?"
Ore 16,00 – 17,30: Disputa a due. “La volontà di potenza in Nietzsche: cosa mi convince, cosa non mi convince”. Dibattito pubblico fra Alberto Giovanni Biuso e Orlando Franceschelli. Introduce Chiara Zanella, modera Marta Mancini. Presso il Castello Arabo Normanno.
Ore 18,00 – 20,00: Tavola rotonda su “Si può essere felici in un mondo infelice?”. La riflessione dialogata, aperta a tutti gli iscritti al Festival, sarà introdotta da brevi interventi di tutti i filosofi presenti: Alberto Giovanni Biuso, Augusto Cavadi, Orlando Franceschelli, Giorgio Gagliano, Marta Mancini, Chiara Zanella. Presso il Castello Arabo Normanno.
Ore ------– 21,45: Concerto di musica classica per pianoforte e per violino (Giorgio Gagliano). Presso il Teatro "Apollo - Anton Rocco Guadagno".

Domenica 3 giugno
Ore  8,00 –  9,00: Colazione con i filosofi.
Momento informale presso l’Hotel Al Madarig.
Ore  9,30 – 12,00: Laboratori di con-filosofia. Uno a scelta secondo prenotazione, tutti presso l'Hotel Al Madarig:
• Alberto Giovanni Biuso: "XXI. Il secolo della dismisura"
• Orlando Franceschelli: "Dopo Hiroshima e Nagasaki: alle soglie della terza atomica?"
• Giorgio Gagliano: "L’agonia della democrazia"
• Chiara Zanella: "Il coraggio e la tenerezza: due opposti?"
• Marta Mancini: "Denaro e autoinganno: ambiguità e paradossi di un servo-padrone"
Ore 12,15 – 19,30: Escursione turistica. Il pullman parte davanti all’Hotel Al Madarig, passa dalla Riserva dello Zingaro, prosegue per Trapani; alle 17,30 riparte da Trapani e alle 18,30 ripassa dallo Zingaro per tornare a Castellammare del Golfo. Si consiglia munirsi di pranzo a sacco.


NOTIZIE TECNICHE


• La partecipazione a tutti gli eventi è riservata ai possessori di un pass rilasciato dalla segreteria organizzativa del Festival.
- Il pass valido 3 giorni ha il costo di euro 20,00; per i cittadini residenti ufficialmente a Castellammare del Golfo euro 5,00.
- Il pass valido 1 giorno ha il costo di euro 10,00.
- Eccezionalmente sarà possibile partecipare senza pass, gratuitamente, alle manifestazioni culturali offerte, nelle due sere, al Teatro "Apollo - Anton Rocco Guadagno".
• La partecipazione alla gita in pullman di domenica 3 giugno sarà riservata a quanti avranno prenotato e versato la quota aggiuntiva di euro 20,00 (non più tardi del 20 maggio 2018).
• Tranne dove diversamente indicato, le sessioni di con-filosofia si svolgeranno presso l’Hotel Al-Madarig (con accesso ai possessori di pass).
• Ovviamente si è liberi di pernottare in qualsiasi struttura alberghiera. Convenzioni speciali (sino a esaurimento posti) sono state stipulate con Hotel Al Madarig (Tel. 0924 33533 - Email: info@almadarig.com).
• Per i pasti si suggerisce di prenotare sul posto a seconda dei gusti e delle esigenze alimentari. Ristoranti, trattorie, tavole calde e fredde con cibi di strada non mancano certo...

IMPORTANTE: è opportuno prenotare la propria iscrizione al Festival (a prescindere dalla sistemazione alberghiera che si sceglie autonomamente). A tale scopo compilare il modulo predisposto contattando la segreteria di accoglienza: Cell. 328 3369985 - Email: filosofiadamare@virgilio.it
Con questo stesso modulo si può prenotare il servizio transfert dall’aeroporto e per l’aeroporto nonché la gita di domenica 3 giugno.
Per fruire agevolmente degli eventi, si consiglia vivamente di arrivare a Castellammare del Golfo già entro la sera di giovedì 31 maggio e di ripartire lunedì 4 giugno.
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27 gennaio 2018

Filosofia dello sguardo

Filosofia per la vita. Stefania Bernabeo: Filosofia dello sguardo.

La filosofia si incontra ovunque. Qualche giorno fa un mio collega di lavoro, Roberto Monticone, ha fatto una considerazione molto interessante e l'ho pregato di trascriverla. Eccola.


Filosofia dello sguardo

Che cosa significa guardare? Tutto ha inizio da una considerazione. 

Cosa facciamo quando osserviamo qualcosa?
I nostri occhi si orientano in modo da permettere al nostro cervello di sintetizzare la figura, nell'insieme e nel particolare.
Il punto focale lo scegliamo, inconsapevoli del movimento che i nostri nervi ottici mettono in atto al fine di orientare e far convergere i bulbi oculari.
Movimenti complessi e impercettibili, che cambiano in funzione della distanza e del nostro punto di attenzione.  

L'immagine, nella nostra mente, altro non è che l'unione di tanti punti messi a fuoco, e per far questo gli occhi si muovono incessantemente e li guidiamo senza neppure pensare. Si muovono durante la veglia, spesso si muovono nel sonno. 

Tuttavia, una condizione in cui i nostri occhi smettono di cercare una convergenza, è quella in cui l'oggetto che osserviamo è molto distante da noi. 

Sono giunto alla conclusione che è questo un elemento importante della sensazione rilassante che proviamo quando osserviamo l'orizzonte del mare, le montagne, le stelle, le nuvole: panoramilontani.

Finalmente, gli assi dei nostri occhi si parallelizzano, i nervi ottici si distendono e noi sentiamo quel piacevole e gratificante senso di benessere, che tutti abbiamo sperimentato nella vita. 

"Due rette parallele si incontrano all'infinito" ci insegnavano da bambini, ma non ci avevano mai spiegato che, forse, un punto all'infinito si espande.

La contemplazione dello scenario sostituisce la frenetica ricerca del particolare. 

Lo sguardo si allarga, tutto è a fuoco: relax della mente.


Stefania Bernabeo
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26 gennaio 2018

Augusto Cavadi a Trapani, Sabato 27 Gennaio 2018, presenta il suo libro "Il mare, com'è profondo il mare..."

Filosofia per la vita - Augusto Cavadi - Il mare, com'è profondo il mare...

Presentazione del libro
"Il mare, com’è profondo il mare..."
di Augusto Cavadi
(Diogene Multimedia, Bologna 2017)

Sabato 27 Gennaio 2018, ore 17
Via Torre di Ligny - TRAPANI


Presenta
• Enrico Genovese

Interverranno
Augusto Cavadi - l'autore
• Ivana Simonetta - psicologa, psicoterapeuta
• Giampaolo Schifano - cantautore folk
• Giovanni Marano - artista
• Ornella Fulco - giornalista

Evento Facebook
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12 gennaio 2018

Stefania Bernabeo sulla "Filosofia dello spazio quotidiano"

Filosofia dello spazio quotidiano. Stefano Zampieri.
"Filosofia dello spazio quotidiano. La città, la strada, la casa, luoghi e altri non-luoghi". Stefano Zampieri, Diogene Multimedia, 2017.

In questo libro Stefano Zampieri, noto consulente filosofico e già presidente di Phronesis, l'associazione nazionale dei consulenti filosofici, propone di indirizzare il percorso di ricerca delle pratiche filosofiche nella direzione di una Filosofia nel Quotidiano, cioè una filosofia che superi la forma del dualismo, e che pensi l'uomo nella sua interezza, come tessuto di pensiero e di azione, come unità complessa di corpo e psiche.
Si tratta dunque di interrogare l'esistenza in quanto accesso al mondo, in quanto coincidenza di corporeità e spazialità: siamo nel mondo in quanto corpi, siamo corpi nel mondo. E' chiaro allora che una Filosofia nel quotidiano non può che partire dalla centralità della nozione di spazio, che tuttavia deve essere profondamente ripensata, perchè il modello dello spazio contenitore, lo spazio inteso come il luogo neutro e misurabile in cui stanno le cose, lo spazio geometrico che si afferma con la Prospettiva matematica del '400 per quanto sia essenziale alla nostra esistenza, per quanto ci fornisca gli strumenti di cui la tecnica ha bisogno per renderci la vita più facile e più vivibile, non esaurisce affatto la nostra esperienza dello spazio, che è invece prima di tutto spazio vissuto.
Ecco allora che dopo aver elaborato teoricamente tale questione nella prima parte del libro, Zampieri affronta nella seconda parte la lettura di una serie di spazi di vita: lo spazio confine, lo spazio paesaggio, lo spazio città, lo spazio strada, lo spazio ponte, lo spazio casa, lo spazio porta, lo spazio finestra, lo spazio giardino, offrendo per ognuna di queste figure una matrice di lettura in grado di suscitare interrogativi e di sollecitare nel lettore l'esigenza di porsi a propria volta di fronte agli spazi della propria esistenza sottraendoli all'indifferenza. Perché la nostra identità non è avulsa dal mondo, siamo il mondo che costruiamo e a sua volta il mondo ci determina e ci caratterizza. Non possiamo pensarci se non dentro un mondo. Nella terza parte del libro la prospettiva si amplia ed entrano in gioco la terra e la pluralità dei mondi, l'identità terrestre e la globalizzazione, e persino la prospettiva di una utopia planetaria come estrema possibilità di salvezza dal disastro.
Resta da chiarire, forse, quale interesse quest'opera possa rivestire per il mondo delle pratiche filosofiche. E la risposta l'ha data l'autore stesso in un recente convegno a Venezia: la Filosofia nel quotidiano si propone come il naturale sviluppo delle pratiche filosofiche, uno sviluppo che era già chiaro fin dall'inizio, nel senso che non è possibile affrontare i disagi dell'esistenza se non a partire dalla messa in questione del quotidiano, della vita reale delle persone, e dunque prima di tutto dai luoghi di vita; che si tratti di disagi familiari o di questioni professionali, pensare le dinamiche individuali come astratte e separate dai luoghi fisici in cui si realizzano significa rinunciare a capire una parte importante del problema. Ecco allora, il libro di Zampieri si offre come un essenziale strumento di lavoro per il consulente filosofico.


Stefania Bernabeo
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9 gennaio 2018

"Andarsene": una meditazione scomoda ma salutare

Andarsene. Brevi riflessioni sulla morte propria e altrui. Di Augusto Cavadi.
Augusto Cavadi, "Andarsene. Brevi riflessioni sulla morte propria e altrui". Diogene Multimedia, Bologna 2016, «Le lanterne di Diogene», pagine 96, Euro 5,00.

Il morire va inteso prima di tutto non sotto il segno della ψυχή ma sotto quello dell’ἀνάγκη, non come elemento, pensiero, dramma della vita umana ma come legge che involve, penetra e pervade ogni ente. Tutte le cose che sono ci sono perché altri enti ci sono stati e non sono più, come Cavadi riconosce quando scrive che «già la nostra nascita è stata un dono della morte. Altrui» (p. 10) e quando cita e commenta il frammento di Anassimandro con il quale la filosofia nasce in Europa: «L’ingiustizia consistente proprio nel fatto di ex-sistere, di nascere, di staccarsi dal grande e indefinito Tutto. La propria individuale sussistenza sarebbe il peccato originale che scontiamo morendo» (36).
Nascere e morire sono eventi oggettivi, entrambi del tutto naturali se natura significa esistenza e potenza della materia, delle sue leggi, del costituire ogni ente un attraversamento del tempo come tempo in atto, come grumo di un impasto, come onda di un flusso. Anche per questo è opportuno che «recuperiamo il nesso etimologico fra mater (madre) e materia» (38), perché siamo fatti della stessa carne di nostra madre e questa carne, questa madre è il divenire.
Ciò significa la bella e vera frase di Iona Heath citata dall’autore: «La profondità del tempo è più importante della durata» (83). Bella per la sintesi, vera perché descrittiva di uno dei significati più fecondi che si possano dare all’Inevitabile, al morire: farne un’occasione di totalità, sia nel senso di vivere pienamente il tempo che siamo sia di comprendere che lo siamo noi come lo è ogni altro ente.
Cavadi offre un’ampia, se pur sintetica, panoramica delle possibili letture della morte passando dal platonismo al panteismo romantico, dal nichilismo all’originaria lettura ebraico-cristiana. Ogni lettore si riconoscerà, prevalentemente, nell’una o nell’altra. Personalmente ritengo che una delle pagine più dense di questo libro così saggio vada intesa nel senso che la parte che ogni ente - umani compresi - costituisce non è una parte ‘in vista di’ qualcosa ma una parte che ‘è’ qualcosa: «La piccola, minuscola, quasi insignificante vicenda di ciascuno di noi è inscritta all’interno di una dinamica complessiva d’immani proporzioni: moriamo perché nasciamo. Ogni frammento sperduto, ogni scintilla vagante, ogni lapillo incandescente non può non ricadere là dove ha avuto origine per ricostituire l’unità, l’ordine, l’equilibrio» (37). L’autore non esclude che in questa dinamica si possa rintracciare una qualche teleologia, la volontà di un qualche essere supremo o una legge naturale; a mio avviso, però, nessun inspiegabile enigma quanto la presa d’atto che di tempo siamo fatti. E il tempo è l’altro nome della morte.

Alberto Giovanni Biuso


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