• Augusto Cavadi •
Del filosofo tedesco Martin Heidegger si ricorda, in particolare, un’asserzione: l’essere umano è un essere-per-la morte.
Questa affermazione si può intendere in almeno due prospettive.
La prima, descrittivo-fenomenologica, è più innocua, quasi banale: sulla linea di sant’Agostino, per il quale “nasciamo e, di questo, moriamo”, Heidegger starebbe osservando – per usare le sue stesse parole – che “dacché un uomo nasce è abbastanza vecchio per morire”.
In una seconda prospettiva, ontologico-esistenziale, Heidegger asserisce qualcosa di assai meno ovvio, scontato: che nasciamo “per” morire. Detto in altri termini, il decesso biologico non è solo – come per ogni vivente – la fine, ma il fine. La frase, come nello stile di Heidegger, è volutamente provocatoria e può prestare il fianco a interpretazioni nichilistiche dalle quali ha preso le distanze Hanna Arendt. Nonostante il legame intellettuale e sentimentale che la legava al maestro, infatti, ella ha scritto: «Gli uomini, anche se devono morire, sono nati non per morire ma per incominciare».
Questa affermazione si può intendere in almeno due prospettive.
La prima, descrittivo-fenomenologica, è più innocua, quasi banale: sulla linea di sant’Agostino, per il quale “nasciamo e, di questo, moriamo”, Heidegger starebbe osservando – per usare le sue stesse parole – che “dacché un uomo nasce è abbastanza vecchio per morire”.
In una seconda prospettiva, ontologico-esistenziale, Heidegger asserisce qualcosa di assai meno ovvio, scontato: che nasciamo “per” morire. Detto in altri termini, il decesso biologico non è solo – come per ogni vivente – la fine, ma il fine. La frase, come nello stile di Heidegger, è volutamente provocatoria e può prestare il fianco a interpretazioni nichilistiche dalle quali ha preso le distanze Hanna Arendt. Nonostante il legame intellettuale e sentimentale che la legava al maestro, infatti, ella ha scritto: «Gli uomini, anche se devono morire, sono nati non per morire ma per incominciare».
Martin Heidegger - Filosofo tedesco (1889-1976) |
Ma Heidegger non era un nichilista (o, se lo era, non in maniera così smaccata): egli pensava che l’essere umano è congenitamente correlato non al Niente, al Nihil, ma all’Essere, alla Totalità, all’Intero del reale; solo che, a suo convincimento, questo Essere non ha alcuna stabilità, alcuna permanenza. Questo Essere non è Eternità, ma Tempo.
In questo scenario – siamo esseri divenienti radicati in un Essere diveniente – come si potrebbe interpretare allora la sua formula, apparentemente disperata e disperante, per cui esistiamo “per” morire?
Molto probabilmente egli intendeva evidenziare che la morte può essere affrontata come un incidente imprevisto da maledire (è quanto avviene abitualmente per chi non è attrezzato alla riflessione filosofica), ma anche ‘anticipata’ consapevolmente come criterio di orientamento: in questo modo essa può, costruttivamente, illuminare l’esistenza e darle sapore, significato.
Un poeta contemporaneo cino-francese, François Cheng, ha elaborato a modo suo l’intuizione heideggeriana: “Ci viene dunque offerto un mutamento di prospettiva: invece di limitarci a fissare la morte come uno spauracchio, a partire da questo lato della vita, potremo integrare la morte nella nostra visione e guardare la vita a partire dall’altro lato, che è la nostra morte.
In questa posizione, mentre siamo in vita, il nostro orientamento e i nostri atti sarebbero slanci verso la vita” ("Cinque meditazioni sulla morte ovvero sulla vita", Bollati Boringhieri, Torino 2015, p. 19).
Allora la morte acquista i lineamenti del frutto il quale indica “uno stato di pienezza e, al tempo stesso, il consenso alla fine, alla caduta al suolo” (ivi, p. 22).
Il poeta Rilke ha scritto: “Noi siamo solo la buccia e la foglia. / La grande morte che ognuno ha in sé / è il frutto attorno a cui tutto cambia”.
Cheng, memore delle sue origini orientali, così commenta: “Rilke esprime l’ardente desiderio che la morte di ogni essere sia una morte che appartenga a quello stesso essere, perché nata da lui, come un frutto.
E non manca di constatare, come tutti noi, che se il frutto cade a terra finisce per trovarsi accanto alle radici; fecondando la terra, partecipa del loro potere rigeneratore.
Non dimentichiamo che il frutto in cinese si chiama quo-zi, che significa involucro contenente l’essenza e i semi. Vuol dire anche una forma di compimento e una possibilità di rinascere altrimenti” (ivi, p. 23).
Su queste tematiche una sessantina di persone, provenienti da tutta la Penisola, si sono date appuntamento, dal 22 al 28 agosto c.m., presso l’Hotel Milano di Piazzatorre in Val Brembana nell’ambito delle ormai tradizionali “Settimane filosofiche per non... filosofi” (cfr.: https://vacanze.filosofiche.it).
Un’occasione per riflettere su argomenti che ci inquietano tanto più quanto meno accettiamo di affrontarli da adulti. E per sperimentare quel “dialogo fondato sulla simpatia, disseminato di imprevisti e sorprese”, in cui “chi parla non sa quello che dirà il suo interlocutore; non sa neppure ciò che dirà egli stesso una volta che l’altro si sarà espresso”, così da procedere “passo dopo passo verso l’ignoto della mente, verso la risonanza delle anime, verso un in-finito aperto” (ivi, p. 39).
Dunque non un aprire bocca per confutare l’altro, per metterlo in difficoltà, ma per cercare insieme. Nella convinzione “non di avere la Verità, ma di essere nella Verità” (ivi, p. 38). O, per lo meno, nei dintorni.
In questo scenario – siamo esseri divenienti radicati in un Essere diveniente – come si potrebbe interpretare allora la sua formula, apparentemente disperata e disperante, per cui esistiamo “per” morire?
Molto probabilmente egli intendeva evidenziare che la morte può essere affrontata come un incidente imprevisto da maledire (è quanto avviene abitualmente per chi non è attrezzato alla riflessione filosofica), ma anche ‘anticipata’ consapevolmente come criterio di orientamento: in questo modo essa può, costruttivamente, illuminare l’esistenza e darle sapore, significato.
François Cheng - Scrittore, poeta, traduttore e calligrafo cinese naturalizzato francese |
Un poeta contemporaneo cino-francese, François Cheng, ha elaborato a modo suo l’intuizione heideggeriana: “Ci viene dunque offerto un mutamento di prospettiva: invece di limitarci a fissare la morte come uno spauracchio, a partire da questo lato della vita, potremo integrare la morte nella nostra visione e guardare la vita a partire dall’altro lato, che è la nostra morte.
In questa posizione, mentre siamo in vita, il nostro orientamento e i nostri atti sarebbero slanci verso la vita” ("Cinque meditazioni sulla morte ovvero sulla vita", Bollati Boringhieri, Torino 2015, p. 19).
Allora la morte acquista i lineamenti del frutto il quale indica “uno stato di pienezza e, al tempo stesso, il consenso alla fine, alla caduta al suolo” (ivi, p. 22).
François Cheng, "Cinque meditazioni sulla morte ovvero sulla vita", Bollati Boringhieri, Torino 2015 |
Il poeta Rilke ha scritto: “Noi siamo solo la buccia e la foglia. / La grande morte che ognuno ha in sé / è il frutto attorno a cui tutto cambia”.
Cheng, memore delle sue origini orientali, così commenta: “Rilke esprime l’ardente desiderio che la morte di ogni essere sia una morte che appartenga a quello stesso essere, perché nata da lui, come un frutto.
E non manca di constatare, come tutti noi, che se il frutto cade a terra finisce per trovarsi accanto alle radici; fecondando la terra, partecipa del loro potere rigeneratore.
Non dimentichiamo che il frutto in cinese si chiama quo-zi, che significa involucro contenente l’essenza e i semi. Vuol dire anche una forma di compimento e una possibilità di rinascere altrimenti” (ivi, p. 23).
Su queste tematiche una sessantina di persone, provenienti da tutta la Penisola, si sono date appuntamento, dal 22 al 28 agosto c.m., presso l’Hotel Milano di Piazzatorre in Val Brembana nell’ambito delle ormai tradizionali “Settimane filosofiche per non... filosofi” (cfr.: https://vacanze.filosofiche.it).
Si consiglia anche: Augusto Cavadi, "Andarsene. Brevi riflessioni sulla morte propria e altrui". Diogene Multimedia, Bologna 2016 |
Un’occasione per riflettere su argomenti che ci inquietano tanto più quanto meno accettiamo di affrontarli da adulti. E per sperimentare quel “dialogo fondato sulla simpatia, disseminato di imprevisti e sorprese”, in cui “chi parla non sa quello che dirà il suo interlocutore; non sa neppure ciò che dirà egli stesso una volta che l’altro si sarà espresso”, così da procedere “passo dopo passo verso l’ignoto della mente, verso la risonanza delle anime, verso un in-finito aperto” (ivi, p. 39).
Dunque non un aprire bocca per confutare l’altro, per metterlo in difficoltà, ma per cercare insieme. Nella convinzione “non di avere la Verità, ma di essere nella Verità” (ivi, p. 38). O, per lo meno, nei dintorni.
Augusto Cavadi