Per scrivere
Aiòn. Teoria generale del tempo (Alberto G. Biuso, Villaggio Maori, Valverde - Ct 2016, pp. 130, euro 14.00) ci voleva coraggio. L’esigenza, anche da parte del lettore ‘comune’ (se l’espressione ha ancora senso: oggi un lettore non è, in quanto tale, eccezionale?), di uno sguardo complessivo, interdisciplinare e transdisciplinare, sul “tempo” è diffusa; ma chi ha – appunto – il coraggio di affacciarsi al di fuori della propria stanzetta disciplinare per raccogliere e confrontare le acquisizioni (o almeno le ipotesi) maturate in aree disciplinari limitrofe? Alberto Giovanni Biuso, filosofo, l’ha dimostrato affrontando il “tempo” dal punto di vista teoretico-metafisico, fisico, epistemologico, antropologico ed estetico.
Sin dalle prime righe si coglie la ragione per cui all’autore l’impresa, per quanto ardua, risulta possibile: “il tempo è la realtà stessa che rende l’universo da noi conosciuto un’indissolubile unità dentro la quale tutto è legato a tutto” (p. 30). Heideggerianamente, per Biuso indagare il
Sein equivale indagare lo
Zeit. Ma procediamo un po’ analiticamente.
Nel primo capitolo (
Teoresi) l’autore esplicita il proprio punto di vista privilegiato e lo fa inspirandosi soprattutto alla fenomenologia di Husserl, “lo sforzo più intenso che la filosofia ha compiuto dopo Agostino di comprendere il tempo, la sua struttura, la sua funzione, l’identità e la differenza che lo costituiscono” (p. 28): “la teoresi filosofica non è ricostruzione storico/storiografica del pensato; non è espressione di visioni del mondo, strutture sociologiche, mentalità diffuse; non è neppure una sintesi unificatrice delle scienze della natura e dell’uomo, né allo scopo di porsi al di sopra di esse né per tentare maldestramente e vanamente di imitarle. La filosofia è qualcosa di primo e di ultimo. Primo perché fondata sulla finitudine costitutiva dell’ente che pensa. Ultimo perché è il luogo delle risposte più radicali ed estreme, le
ultime che sia possibile tentare” (p. 15).
Nel secondo capitolo (
Filosofia), ancora una volta con Husserl quale guida, Biuso prova a superare vari dualismi, tra i quali l’alternativa “realismo” o “idealismo”: “Ogni ente ed evento è impregnato di teoria e le teorie esistono sul fondamento degli enti e degli eventi. La coscienza e l’atto intenzionali non creano nulla che non sia già dato (sintesi passiva) ma costituiscono la condizione affinché un mondo possa darsi alla coscienza (sintesi attiva)” (p. 33).
Il terzo capitolo (
Fisica) ha di mira, principalmente, il dogma (perdurante dal meccanicismo galileiano alla teoria della relatività di Einstein) della
reversibilità dei fenomeni fisici: il secondo principio della termodinamica, invece, individuando “nell’entropia una delle dinamiche fondamentali delle quali la materia è composta e attraversata” (p. 45), per ciò stesso afferma la
irreversibilità di ciò che accade nell’universo. In altre parole, “ciò che è accaduto non può riavvolgersi per tornare all’inizio del proprio accadere, esattamente perché gli stati di disordine sono molto più probabili degli stati originari di ordine” (p. 48).
Nel quarto capitolo (
Antropologia) “il tempo fisico della natura” viene riconosciuto nella sua convergenza con “il tempocorpo delle percezioni e il tempomente dell’esperienza consapevole”: una convergenza che produce in ciascuno di noi “la sensazione di
essere dentro il tempo” (p. 73). Tale sensazione non sarebbe possibile senza la facoltà della “memoria” che, insieme a “attenzione, emozione, slancio verso il futuro prossimo e lontano”, costituisce “la vita della mente, la cui dimensione temporale fa sì che il tempo sia una costruzione insieme psichica, biologica e sociale” (pp. 73-74). E’ in questa sezione del saggio che ho trovato gli spunti più originali, per esempio - ma è solo uno dei tanti possibili - la sottolineatura del “declino della memoria attraverso gli strumenti che la costituiscono in ogni occasione e circostanza – gli strumenti offerti dalla Rete – ” che “rischia di impoverire l’immaginazione e rendere pallido il futuro” (p. 76).
Un penultimo capitolo è dedicato all’
Estetica: vi si ritrovano indicazioni da varie fonti quali la cultura giapponese e la
Recerche di Proust, opera che “fa splendere la parola nel tempo e il tempo nella parola” (p. 95).
Il sesto e ultimo capitolo (
Metafisica) riprende e suggella molti motivi delle pagine precedenti. Precisato che la metafisica “non è una sovrastruttura ma costituisce l’indagine più radicale e insieme la conformazione più profonda della infrastruttura che chiamiamo mondo” (p. 104), Biuso sostiene: “la metafisica vuol dire un’indagine sull’essere-tempo. Il tempo è arché proprio perché è causa, principio e limite. E’ ciò da cui gli eventi nascono non nel senso estrinseco di un ‘prima di’ ma nel senso che nel loro esistere e accadere gli eventi sono tempo in atto, nel senso che il tempo è la forma di ogni possibile ente, evento, processo” (p. 103).
Sin qui, ridotto all’osso, il testo di Biuso. Istruttivo e suggestivo certamente; anche convincente? Personalmente risponderei: non al cento per cento. Per formulare, altrettanto e anzi ancor più sinteticamente, le mie perplessità teoretiche mi concentrerei su due punti (per altro cruciali). Il primo: hanno ragione i pensatori come Bergson, Husserl, Heidegger, Vattimo che (con sfumature differenti da un caso all’altro) identificano essere e tempo? O non sarebbe più preciso affermare che il tempo è una dimensione, un aspetto, una valenza dell’essere? Qualcosa esiste perché è temporale o è temporale perché esiste? In più punti Biuso fa valere l’equivalenza di “tempo” e “divenire”. Se l’accettiamo (almeno provvisoriamente, a scopo dialogico) la domanda diventa: hanno ragione i pensatori come Eraclito, Hegel, Marx che (con sfumature differenti da un caso all’altro) identificano essere e divenire? O non sarebbe più preciso affermare che il divenire è una dimensione, un aspetto, una valenza dell’essere? Qualcosa esiste perché diviene o diviene perché esiste?
Intendiamoci: non si tratta di sfuggire all’impermanenza radicale dell’universo esperibile lasciandosi schiacciare su posizioni parmenidee (o neoparmenidee alla Severino). Il tempo-divenire è indubbiamente un volto costante dell’universo materico: ma il mio volto è la mia essenza, la mia sostanza, il ciò per cui sono e non sarei?
La discussione può sembrare sottile, ma in realtà comporta una posta non proprio secondaria. Se l’essere fosse intrinsecamente temporale sarebbe impensabile la sola ipotesi di una sfera dell’essere a-temporale: il regno dell’immanenza gnoseologica, del fenomenico, del materico sarebbe non solo (come è) l’unico certo, ma anche (come non ritengo si possa affermare) l’unico possibile. Su questo punto Biuso non è disposto a concedere nulla: “la materia è senza un inizio e senza una fine; la materia è l’Intero” (p. 54). Se non li interpreto male, Kant, Bergson (l’ultimo), Wittgenstein (il secondo) sarebbero disposti a darmi qualche ragione: la materia è certamente reale, ma non altrettanto certamente è l’unica valenza della realtà. Senza considerare che, alla luce delle teorie fisiche contemporanee, la nozione stessa di materia esige d’essere rivista: sembrerebbe sempre meno ‘dura’, opaca, passiva e sempre più fluida, energica, zampillante. Dunque sempre più difficilmente distinguibile da ciò che abbiamo imparato a chiamare forma, atto, energia, anima, spirito.
La domanda sul tempo, quindi, ne apre numerose altre: e merito non trascurabile della monografia di Alberto G. Biuso è di non aver temuto di aprirle per gettarvi uno sguardo indagatore.