• Augusto Cavadi •
Se si vuole misurare per intera la svalutazione – ai limiti della ridicolizzazione – delle “virtù” basilari dell'etica classica occidentale, bisogna concentrarsi sulle disavventure della “temperanza”. Di per sé sarebbe una qualità invidiabile: l'arte di ottemperare con misura ai bisogni e ai desideri psico-fisiologici.
Come abbiamo fatto, in Occidente prima e nel mondo intero dopo, a trasformare questo pregio in una caratteristica triste, piccolo-borghese?
A me pare che si sia operato un duplice riduzionismo.
Prima di tutto, nell'elenco delle pulsioni e delle passioni da soddisfare: cancellando, con tratti di penna successivi, la voglia di giocare o di annusare profumi intensi o di danzare o di attrarre l'ammirazione altrui per la propria eleganza nell'abbigliamento.
Soprattutto, ma non esclusivamente, in epoche cristiane si è diffusa la tesi – moralistica – che tutta una serie di esigenze non andavano 'temperate', bensì eliminate. Soppresse. Represse. Con tutti i disastri segnalati da Freud in poi. (Altri lo avevano anticipato concettualmente, ma esprimendosi in maniera infelice, come Pascal nel XVII secolo con il suo “Chi vuol fare l'angelo finirà col fare la bestia”, ignaro che le “bestie” sono spontaneamente 'temperanti', impossibilitate ad errare per eccesso o per difetto).
Vogliamo una conferma? Basta riferirci alla temperanza nella sfera affettivo-sessuale che, in tale ambito, si chiamerebbe “castità”. Di per sé dovrebbe qualificare ogni soggetto che sperimenti con equilibrio i piaceri venerei, che li viva all'interno di relazioni interpersonali significative e reciprocamente gratificanti; ma, appunto, che li “sperimenti”, li “viva”.
Invece nel vocabolario dominante è diventata sic et simpliciter la castità del monaco e della monaca che hanno scelto di esercitare una forma singolare e anomala di castità: l'astensione totale da ogni pratica affettivo-sessuale.
Non passa neppure dall'anticamera del cervello collettivo che un uomo o una donna possano qualificarsi “casti” perché realizzano con accettabile armonia una comunione integrale dei loro due esseri.
Come abbiamo fatto, in Occidente prima e nel mondo intero dopo, a trasformare questo pregio in una caratteristica triste, piccolo-borghese?
A me pare che si sia operato un duplice riduzionismo.
Prima di tutto, nell'elenco delle pulsioni e delle passioni da soddisfare: cancellando, con tratti di penna successivi, la voglia di giocare o di annusare profumi intensi o di danzare o di attrarre l'ammirazione altrui per la propria eleganza nell'abbigliamento.
Soprattutto, ma non esclusivamente, in epoche cristiane si è diffusa la tesi – moralistica – che tutta una serie di esigenze non andavano 'temperate', bensì eliminate. Soppresse. Represse. Con tutti i disastri segnalati da Freud in poi. (Altri lo avevano anticipato concettualmente, ma esprimendosi in maniera infelice, come Pascal nel XVII secolo con il suo “Chi vuol fare l'angelo finirà col fare la bestia”, ignaro che le “bestie” sono spontaneamente 'temperanti', impossibilitate ad errare per eccesso o per difetto).
Vogliamo una conferma? Basta riferirci alla temperanza nella sfera affettivo-sessuale che, in tale ambito, si chiamerebbe “castità”. Di per sé dovrebbe qualificare ogni soggetto che sperimenti con equilibrio i piaceri venerei, che li viva all'interno di relazioni interpersonali significative e reciprocamente gratificanti; ma, appunto, che li “sperimenti”, li “viva”.
Invece nel vocabolario dominante è diventata sic et simpliciter la castità del monaco e della monaca che hanno scelto di esercitare una forma singolare e anomala di castità: l'astensione totale da ogni pratica affettivo-sessuale.
Non passa neppure dall'anticamera del cervello collettivo che un uomo o una donna possano qualificarsi “casti” perché realizzano con accettabile armonia una comunione integrale dei loro due esseri.
Come se non fosse abbastanza disastrosa questa riduzione, noi occidentali abbiamo deformato anche la nozione di 'misura': trasformandola gradualmente nella nozione di 'minimo indispensabile'.
Così temperante è colui che beve meno vino possibile, che veste quanto più poveramente nei limiti della decenza, che fa sesso solo nelle situazioni inevitabili... Ma intemperante, incapace di equilibrio, è solo chi eccede o anche chi difetta? Da prevenire come disordine è solo la bulimia (letterale e metaforica) o anche l'anoressia (letterale e metaforica)? Da compiangere come soggetto irrisolto è solo chi esagera nella ricerca ossessiva di ogni genere di piacere o, almeno allo stesso titolo, chi si astiene in maniera radicale crogiolandosi nella sua insensibilità o addirittura inorgogliendosi per la sua indifferenza nei riguardi di ogni attrattiva sensoriale, 'estetica'?
Il sessuomane viola certamente i canoni condivisi della castità; ma perché non pensiamo e non diciamo altrettanto di chi stabilisce una stabile relazione di coppia e non fa nulla, per quanto nelle sue possibilità, per coltivarne la valenza erotica?
Solo la riscoperta della ‘temperanza’ nella sua originaria bellezza potrebbe orientare verso una vita serena i passi dei singoli cittadini e le decisioni politiche di rilevanza collettiva.
Il proibizionismo – proiezione legislativa dell’intemperanza per difetto – provoca, e non può non provocare, il moltiplicarsi degli abusi nel consumo di tutto ciò che, in misura scientificamente ragionevole, sarebbe invece gradevole compenso alla pesantezza del vivere. O almeno innocuo fattore di conforto, al labile confine fra esperienza diurna e illusione onirica.
Rinverdire oggi la figura, annebbiata, del temperante per scelta esistenziale comporterebbe rifocalizzare il criterio-principe di un’etica fondata sull’evoluzione complessiva del soggetto: il limite alla soddisfazione delle esigenze scaturenti dalla propria corporeità può essere segnato solo dalla volontà di preservare se stessi da ogni forma di autolesionismo e di rispettare l’analogo diritto alle medesime soddisfazioni da parte di ogni altro essere vivente e senziente.
Le persone che tendono a godere di tutto il godibile, tranne che della sofferenza altrui, sono come torce elettriche che aprono il cammino nella notte della storia.
Così temperante è colui che beve meno vino possibile, che veste quanto più poveramente nei limiti della decenza, che fa sesso solo nelle situazioni inevitabili... Ma intemperante, incapace di equilibrio, è solo chi eccede o anche chi difetta? Da prevenire come disordine è solo la bulimia (letterale e metaforica) o anche l'anoressia (letterale e metaforica)? Da compiangere come soggetto irrisolto è solo chi esagera nella ricerca ossessiva di ogni genere di piacere o, almeno allo stesso titolo, chi si astiene in maniera radicale crogiolandosi nella sua insensibilità o addirittura inorgogliendosi per la sua indifferenza nei riguardi di ogni attrattiva sensoriale, 'estetica'?
Il sessuomane viola certamente i canoni condivisi della castità; ma perché non pensiamo e non diciamo altrettanto di chi stabilisce una stabile relazione di coppia e non fa nulla, per quanto nelle sue possibilità, per coltivarne la valenza erotica?
Solo la riscoperta della ‘temperanza’ nella sua originaria bellezza potrebbe orientare verso una vita serena i passi dei singoli cittadini e le decisioni politiche di rilevanza collettiva.
Il proibizionismo – proiezione legislativa dell’intemperanza per difetto – provoca, e non può non provocare, il moltiplicarsi degli abusi nel consumo di tutto ciò che, in misura scientificamente ragionevole, sarebbe invece gradevole compenso alla pesantezza del vivere. O almeno innocuo fattore di conforto, al labile confine fra esperienza diurna e illusione onirica.
Rinverdire oggi la figura, annebbiata, del temperante per scelta esistenziale comporterebbe rifocalizzare il criterio-principe di un’etica fondata sull’evoluzione complessiva del soggetto: il limite alla soddisfazione delle esigenze scaturenti dalla propria corporeità può essere segnato solo dalla volontà di preservare se stessi da ogni forma di autolesionismo e di rispettare l’analogo diritto alle medesime soddisfazioni da parte di ogni altro essere vivente e senziente.
Le persone che tendono a godere di tutto il godibile, tranne che della sofferenza altrui, sono come torce elettriche che aprono il cammino nella notte della storia.
Augusto Cavadi