MANUALE PER VIP
Rubrica a cura di Augusto Cavadi

Augusto Cavadi, Manuale per Vip
«Eh, no! Mi dispiace. Se vi siete incuriositi a questa nuova rubrica perché immaginate che parli di questo o quel Vip (dall'inglese "very important person"), rimarrete delusi. Niente pettegolezzi, indiscrezioni, dicerie: l'ottanta per cento della carta stampata e delle televisioni ne è già zeppa! Ho voluto scegliere questa sigla, invece, come abbreviazione di "Vivere in pienezza"...»
Dal post introduttivo ►
CENETTE FILOSOFICHE PER NON... FILOSOFI
(DI PROFESSIONE)
Rubrica a cura di Augusto Cavadi

Augusto Cavadi, Cenette Filosofiche
Nel 2003 alcuni partecipanti abituali alle “Vacanze filosofiche” estive¹, e residenti nella stessa città (Palermo), abbiamo esternato il desiderio di incontrarci anche nel corso dell’anno, tra un’estate e l’altra. Da qui l’idea di una cenetta quindicinale presso lo studio legale di uno di noi, Pietro Spalla, che si sarebbe incaricato di far trovare un po’ di prodotti da forno e qualche bevanda. Appuntamento alle ore 20:00 (in martedì alterni) per accogliersi a vicenda e mangiucchiare ciò che si trova sulla tavola: dalle 20:30 alle 22:00, poi, lo svolgimento dell’incontro.

La metodologia che abbiamo adottato è molto semplice: chiunque del gruppo propone un testo che si presti ad essere letto in chiave di filosofia-in-pratica (dunque non solo un classico del pensiero filosofico, ma anche un romanzo o un trattato di psicologia, un saggio di astrofisica o di botanica) e, se la maggioranza lo accetta, diventa nelle settimane successive il testo-base delle conversazioni. In esse non sono graditi gli approfondimenti eruditi (tipici dei seminari universitari) perché si vorrebbe dare spazio alle riflessioni personali, alle risonanze esistenziali e alle incidenze sociopolitiche, suggerite dal testo adottato. Uniche condizioni per la partecipazione: aver letto le pagine del libro che il gruppo si assegna di volta in volta per la riunione successiva (se non si fosse riusciti a farlo in tempo, si è pregati di assistere in silenzio) e intervenire evitando i toni polemici nei confronti dei presenti che abbiano espresso convinzioni, esperienze, ipotesi interpretative differenti dalle proprie².

La pandemia del Covid-19 ha costretto la piccola comunità di ricerca filosofica a sospendere gli incontri in presenza e a sostituirli con sessione in video-conferenza: certamente una riduzione della qualità delle relazioni fra i partecipanti, ma anche l’apertura di possibilità sino a quel momento inesplorate. Così amiche e amici di varie regioni italiane si sono collegati via internet e questa modalità di interazione ha finito col sostituire del tutto le cenette in presenza. Ci si vede direttamente alle 20:30 collegandosi mediante un link che Pietro Spalla trasmette a chiunque faccia richiesta di essere incluso nell’apposita mailing list (spalla.pietro@gmail.com).

La mailing list è diventata, sempre più, un luogo di scambi tra una cenetta e la successiva: scambi di opinioni, di commenti, di suggerimenti bibliografici, di battute umoristiche, di informazioni su eventi culturali... In questa molteplicità di interventi occasionali, non ne mancano alcuni meno estemporanei, di una certa consistenza e di un certo rilievo, che probabilmente meritano di non essere seppelliti nelle ondate di e-mail che si accavallano di giorno in giorno (talora di ora in ora).

Da qui l’idea di aprire in questo blog – www.filosofiaperlavita.it – un’apposita rubrica – “Cenette filosofiche per non... filosofi (di professione)” – che metta a disposizione, per un lasso di tempo più lungo e soprattutto per un pubblico potenzialmente più ampio, i contributi che i sostenitori finanziari della rubrica riterranno opportuno segnalare³.

Augusto Cavadi


¹ Cfr. https://vacanze.filosofiche.it
² Cfr. “Cenette filosofiche” in A. Cavadi, Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova antichissima spiritualità, Diogene Multimedia, Bologna 2016, pp. 282-284.
³ Attualmente i rimborsi delle spese di gestione di questa rubrica sono sostenuti da Caccamo A., Cavadi A., Chiesa L., Cillari E., D’Angelo G., D’Asaro M., Di Falco R., Enia A., Federici G., Galanti M., Gulì A., Leone R., Oddo G., Palazzotto A., Paterni M., Randazzo N., Reddet C., Salvo C., Spalla P., Spalla V., Santagati G., Ugdulena G., Vergani B., Vindigni E. Chi desiderasse aggiungersi al numero dei sostenitori può contattarmi alla e-mail a.cavadi@libero.it

8 gennaio 2025

Creatività, elogio con cautela

• Augusto Cavadi •


Filosofia per la vita - Augusto Cavadi sulla creatività
Parole come “creatività” occupano, semanticamente, il filo sottile fra due vuoti: la banale genericità dell’ovvio, da una parte; l’elitaria eccezionalità, dall’altra. Infatti ci ripetiamo ora che creativi lo saremmo tutti ora che lo sarebbero alcuni geni canonizzati. Questa polarizzazione non mi convince. Per evitare di dire, con il medesimo vocabolo, troppo o troppo poco può riuscire istruttiva la chiave ermeneutica (di origine aristotelico-medievale) dell’analogia: creativi lo siamo tutti i viventi, ma ognuno a modo suo, in parte simile e in parte (ancora maggiore) dissimile da ogni altro vivente.

Le formiche della villa comunale manifestano, indubbiamente, creatività nel costruire il formicaio; ma una creatività che somiglia soltanto, senza uguagliarla, alla creatività degli architetti della Firenze rinascimentale. In entrambi i casi dei soggetti trasformano una materia donando emergenza a qualcosa di novum, di inedito; ma il grado di questa novità non è il medesimo. Il ruolo della soggettività autrice, infatti, può andare da livelli minimi – per cui si riproduce nei secoli un prodotto pressoché uguale – a livelli massimi di originalità, sino alla vera e propria unicità irripetibile, inimitabile.

Se adottiamo questa griglia interpretativa non è difficile riconoscere nella categoria “creatività” una costellazione di qualificazioni positive, al punto che spesso usiamo l’aggettivo “creativo” in un’accezione immediatamente laudativa. La vita dei singoli e le vicende dei popoli scorrono di solito con monotona ripetitività, per cui risulta spontaneo salutare con compiacimento ogni gesto che introduca qualcosa di “nuovo sotto il sole”: il combinato disposto di tradizionalismo e di conformismo costituisce una cappa di grigiore omologante insopportabilmente soffocante.

Contro la divinizzazione della creatività
Come tutti i valori, anche la creatività è esposta al rischio dell’acritica enfatizzazione retorica. Peggio: se assolutizzata, può capovolgersi in disvalore. D‘altronde, se è uno dei modi in cui si manifesta l’intelligenza, non c’è da stupirsi che ne condivida l’ambivalenza: di per sé è un bene, ma ne possiamo fare un uso spregevole (specie quando la disconnettiamo dall’insieme delle nostre potenzialità umane: come notava Chesterton, c’è una forma di pazzia che consiste nel perdere tutto tranne la ragione).

Le serie televisive ‘gialle’ statunitensi abbondano di esempi spiazzanti di creatività criminale: suppongo che non tutti siamo d’accordo nel considerare un’abilità ammirevole inventare metodi inediti di tortura di vittime innocenti. In campi un po’ meno perniciosi, come il marketing, assistiamo nelle tecniche pubblicitarie a manifestazioni di creatività originale di cui faremmo volentieri a meno per rispetto della nostra salute fisica (quando mirano a farci ingurgitare alimenti poco dietetici) o dell’immagine pubblica della donna (quando viene rappresentata come merce apri-pista di altre merci).

Tra intellettuali e artisti finalizzare la creatività all’originalità può diventare un’ossessione oscillante fra il patetico e il ridicolo. Già nel Settecento Rousseau stigmatizzava la tendenza di numerosi suoi colleghi a voler apparire a tutti i costi diversi dagli altri. Tutti noi abbiamo nella cerchia dei nostri conoscenti qualcuno che interviene nelle discussioni prima di tutto, o addirittura esclusivamente, per contestare un’affermazione, prenderne le distanze, proporre un’alternativa: come se riconoscere la particella di vero nelle opinioni altrui fosse indice di scarso acume critico! E ai primi anni di università uno dei miei docenti di filosofia, Armando Plebe, diceva – e scriveva – che il filosofo dev’essere come il clown che irrompe in un contesto spiazzando gli astanti con trovate inaspettate. Un suo collega, Nunzio Incardona, non teorizzava questa strategia stupefacente, ma la praticava: le sue lezioni, come i suoi testi, erano zeppe di neologismi fantasiosi collegati da una sintassi ardita.

Bertold Wald ha riferito, a proposito di un pensatore importante nella mia formazione, Joseph Pieper (“per l’alta tiratura dei suoi scritti e l’ampio numero delle traduzioni, egli è il filosofo tedesco più letto del ventesimo secolo”), che nella cerchia dei discepoli di Martin Heidegger (dove “bizzarria speculativa e stravaganza terminologica venivano e vengono ancor oggi considerate come segno distintivo dell’argomentare filosofico”) si diceva: “Joseph Pieper? Tutti lo capiscono – questa non è filosofia”.

Spero sia chiaro che non sto tentando alcuna apologia della banalità. Sto solo denunziando alcuni metodi truffaldini per camuffarla, come appunto la creatività apparente. È pacifico che per dire cose nuove si debbano (e dunque si possano) creare parole nuove; ma è disonesto intellettualmente inventarsi parole nuove solo per non far notare di dire cose vecchie. Tra l’altro è un trucco superfluo perché anche le cose antiche possono essere dette creativamente se usiamo le parole antiche con autenticità, avendole incarnate e ri-create. Già: è importante sottolineare il nesso autenticità-creatività-originalità. Proverei a formularlo in questo modo: quando si crea con autenticità (cioè con fedeltà alla propria ispirazione) si risulta comunque originali. Aggiungerei che l’originalità (che può – non: deve – risultare esotica, extra-ordinaria) è in ogni caso un effetto collaterale, non un obiettivo da perseguire in se stesso.

Dopo aver citato Luc de Clapiers de Vauvenargues – “Un libro davvero nuovo e davvero originale sarebbe quello che facesse amare vecchie verità” – Pierre Hadot così chiosa: “Ci sono verità di cui le generazioni umane non giungeranno mai a esaurire il senso; non che siano difficili a capirsi, al contrario sono estremamente semplici, spesso hanno persino l’apparenza della banalità; ma precisamente, per comprenderne il senso occorre viverle, occorre rifarne incessantemente l’esperienza: ogni epoca deve riprendere questo compito, imparare a leggere e a rileggere queste «vecchie verità»” (per questa citazione, e le precedenti di questo paragrafo, rimando al mio La filosofia come terapia dell’anima. Linee essenziali per una spiritualità filosofica, Diogene Multimedia, Bologna 2019, pp. 131–135).

Non so se ci attende un Aldilà in cui ciascuno conserverà la memoria della propria storia, ma so che – se così fosse – ci sarebbe da divertirsi lungamente nello scoprire che la creatività narcisistica ed esibizionistica di un Vittorio Sgarbi è solo la parodia della creatività di quelle migliaia di insegnanti di arte che, ogni giorno come se fosse per la prima volta, hanno parlato di bellezza artistica ai loro alunni con amore sincero e competente. E solo per questo sono stati in grado di contagiare la propria quieta passione.

L’humus (nascosto) della creatività
Talora la nozione di creatività si oppone a nozioni che ne denominano invece dei presupposti irrinunciabili.
Un caso tipico è l’opposizione creatività/tradizione. Non c’è creatività senza innovazione e dunque senza tradimento di ciò che si è ricevuto in eredità. Ma è proprio il patrimonio (materiale e simbolico) tramandato che può suscitare dialetticamente l’inventiva. Chi è privo di memoria rischia di scambiare per creazione inedita ciò che è già stato visto, criticato, superato: di sbandierare come proprio merito “la scoperta dell’acqua calda”.

Abbastanza simile l’opposizione creatività/tecnica. Dal Rinascimento italiano del Cinquecento in poi abbiamo imparato a distinguere il diligente artigiano, che padroneggia tecniche faticosamente apprese, dal fantasioso artista che fa saltare il tavolo e impone nuove regole di gioco. Ma quando si ascoltano questi rivoluzionari si apprende – come si esprimeva ad esempio Picasso – che ci vuole una vita per imparare a dipingere con la spontaneità creatrice di un bambino. Solo chi ha avuto la pazienza di seguire le prescrizioni canoniche può trasgredirle efficacemente: nessun aereo decolla senza aver accettato di strisciare terra-terra su una pista per tutto il tempo necessario.

Creatività ad intra
Sinora abbiamo riflettuto sulla creatività ad extra, come attività transitiva. Essa presuppone, per certi versi, e contribuisce a realizzare, per altri, la creatività ad intra: l’auto-creatività. E’ vero infatti che l’azione è effetto e manifestazione di ciò che si è (agere sequitur esse); ma direi essere altrettanto vero che si è ciò che le nostre azioni – specie se ripetute – ci rendono (esse sequitur agere). Siamo originariamente e radicalmente “dati” – donati – a noi stessi, ma non in un assetto definito al punto da essere esonerati dal plasmarci, dal ri-formarci, dal co-crearci.

Neanche questa accezione soggettiva, personale, di creatività va mitizzata. Da una parte dobbiamo essere fieri di ciò che siamo diventati: non dobbiamo vergognarci delle nostre caratteristiche peculiari, della nostra originalità, e immergerci nella massa per mimetizzarci. Si ricorda come molto saggia la richiesta dell’attrice Anna Magnani a un suo truccatore: “Lasciami tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una. C’ho messo una vita a farmele!”. Tuttavia questo sano orgoglio di essere ciò che si è – e se è il caso di pagare in termini di emarginazione la propria inventività pionieristica, catacronistica - non deve necessariamente includere tutti i propri difetti, specie se dai risvolti oggettivamente – e socialmente – sgradevoli. Da qualche parte mi è capitato di leggere: “Sei unico, sii te stesso! Ma se capisci che sei uno stupido, non insistere”. Uno stolto che, creativamente, si eserciti ad esserlo ogni giorno di meno non perde di originalità: si limita a modificarne i tratti. Da ex-insipienti si può essere unici come, e più, che da insipienti.


Augusto Cavadi


Da: “Le nuove frontiere della scuola”, n.65, Dicembre 2024, pp. 9–12
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22 ottobre 2024

La ricerca della felicità e lo scontento diffuso

• Anna Colaiacovo •


Filosofia per la vita - Colaiacovo - Felicità
La ricerca della felicità è il fine dell’uomo contemporaneo. Intorno al concetto di felicità, come imperativo sociale e morale da perseguire, si è imposto un modello, partito dagli Stati Uniti verso la fine del secolo scorso, che si è perfettamente saldato con il neoliberismo e con il consumismo. Un modello che si è diffuso nell’area occidentale del pianeta attraverso la commercializzazione di libri e prodotti di ogni tipo.

Di quale felicità stiamo parlando?

Del benessere che può raggiungere l’individuo convinto che deve contare solo su se stesso e che, indipendentemente dalle circostanze esterne, deve lavorare su di sé per diventare sempre più produttivo e determinato a raggiungere successo e ricchezza. Questo modello è sostenuto da un’idea di fondo che parte da Hobbes e si sviluppa attraverso il liberalismo: gli individui sono motivati essenzialmente da passioni egoistiche, che possono essere regolate solo dal mercato e da istituzioni artificiali come lo Stato. Trasmette il messaggio che la vita è un gioco duro in cui ognuno gioca per sé e, se vuole vincere, in una società dominata da leggi di mercato spietate e da uno Stato che deve (dovrebbe?) regolarne gli effetti, non può fidarsi di nessuno (come nei reality show). Stiamo parlando di un individuo che si percepisce come autonomo e con desideri illimitati, cardine di un sistema economico che ha bisogno di una continua crescita. Un sistema che scarta i soggetti più deboli e che addebita, sempre e comunque all’individuo stesso, la responsabilità del fallimento. Nella ‘industria della felicità’, il grande assente è la collettività. Valori come giustizia, fiducia, solidarietà, compassione non sono contemplati. Anzi, sono dannosi perché ostacolano il successo. Prevalgono, invece, l’ancoraggio al presente, la soddisfazione immediata del desiderio, il primato delle emozioni sui sentimenti, la tendenza ai legami deboli, facilmente gestibili e di breve durata.
L’esperienza del Covid, in cui ci siamo ritrovati improvvisamente fragili e vulnerabili, ovvero soggetti in relazione e non autonomi e sovrani, ci ha posto di fronte a tanti nostri limiti e ci ha fatto cogliere l’importanza del rapporto con gli altri e la necessità della cura. Non è riuscita però, una volta superata l’epidemia, a intaccare il nostro stile di vita. Siamo tornati velocemente a vivere come prima, quantomeno a desiderarlo.

Ma, questa condizione ci rende felici? O non è forse “meglio – come sosteneva John Stuart Mill – essere un Socrate scontento piuttosto che un maiale soddisfatto?”
In realtà, secondo Marcello Veneziani, che sull’argomento ha scritto il libro “Scontenti-perché non ci piace il mondo in cui viviamo” ¹, oggi il modello prevalente non è il Socrate scontento, e neppure il maiale soddisfatto. È, invece, il maiale insoddisfatto. Abbiamo scoperto che la società del benessere non genera felicità, ma produce scontentezza. Anche se si vive più a lungo rispetto al passato e in migliori condizioni, lo scontento è, infatti, il sentimento prevalente nel nostro tempo. Un tempo dominato dall’egocentrismo, da desideri illimitati alimentati dal mercato, e dal rischio continuo del mancato riconoscimento di sé che, da un lato, produce frustrazione e sintomi depressivi; dall’altro, astio e rancore. Inoltre, rispetto al passato anche recente, viviamo prigionieri del presente, senza più rapporti con la memoria storica e senza alcuna fiducia nel futuro, che non è più visto come una promessa ma è diventato una minaccia. É come se avessimo la percezione di attraversare un punto di non ritorno: l’indebolirsi del pensiero, l’assenza del trascendente, la mancata consapevolezza di ciò che abbiamo perduto (la storia), lo sviluppo della tecnica e il rischio di esserne dominati. Da qui, lo spaesamento.

Come si può governare lo scontento? Veneziani suggerisce di ripartire da ciò che siamo, dalla accettazione della nostra imperfezione e dei nostri limiti (amor fati), vivendo senza scontento né soddisfazione permanente.

É una possibile via d’uscita individuale dallo scontento. Ma, è questa l’unica soluzione? La percezione di sé come essere vulnerabile potrebbe anche diventare un punto di partenza per agire nel mondo in modo diverso. Habermas, sulla imperfezione e caducità dell’esistenza umana, fonda il comportamento morale: «Io intendo il comportamento morale come una risposta costruttiva a dipendenze e bisogni che sono radicati nell’imperfezione della dotazione organica e nella perdurante caducità dell’esistenza umana (in modo più evidente nelle fasi infantili, patologiche e senili della vita)».²

Per affrontare le sfide del nostro tempo, secondo Elena Pulcini, sono necessarie cura e giustizia:³ «Da un lato abbiamo bisogno della giustizia, per far fronte a disuguaglianza e sfruttamento, umiliazione e povertà; dall’altro scopriamo l’urgenza della cura contro l’atomismo e l’indifferenza, l’erosione del legame sociale, l’incuria verso il mondo vivente e la drammatica condizione dell’ambiente».

La consapevolezza della nostra fragilità e il bisogno di relazione – la solitudine è uno dei grandi problemi del nostro tempo – sono fondamentali per alimentare la lotta contro l’ingiustizia e per sviluppare la capacità di un’autentica cura. A condizione di fondare la giustizia non sulla sola razionalità e su un astratto individualismo, ma partendo dalle rivendicazioni concrete delle persone, e di intendere la cura come qualcosa che ci riguarda tutti.


Anna Colaiacovo


¹ M. Veneziani, Scontenti - Perché non ci piace il mondo in cui viviamo, Marsilio, 2022
² J. Habermas, Il futuro della natura umana, Einaudi, Torino 2002, pp.36-37
³ E. Pulcini, Tra cura e giustizia - Le passioni come risorsa sociale, Boringhieri, Torino 2020, p. 9
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18 ottobre 2024

Passeggiata filosofica, pregi e limiti di una pratica filosofica

• Augusto Cavadi •


Filosofia per la vita - Cavadi - Passeggiata filosofica
Non ricordo con esattezza quando ebbi per la prima volta l’idea di una “passeggiata filosofica”, ma da molti anni mi è capitato di sperimentarla, ovviamente con esiti più o meno convincenti a seconda della qualità del coinvolgimento – silenzioso o esplicito – dei presenti. Di che si tratta? E in che senso può considerarsi una pratica “filosofica”?

La struttura
Si tratta di un’attività in sé elementare che rivela una delle capacità più naturali dell’umanità: poter camminare. Per quanto spostarsi nello spazio sia uno degli atti più spontanei che l’uomo compia, è pregno di significato simbolico. Rivela la nostra condizione ontologica di nomadi. Come ricorda Todorov, noi mortali non abbiamo radici come gli alberi che nascono e muoiono nello stesso terreno, ma gambe per muoverci: per attraversare i confini fisici e artificiali e per ‘meticciarci’.
Questa pratica consiste, dunque, in una passeggiata di circa 50-60 minuti scandita da tre brevi soste (due intermedie e una conclusiva). All’inizio il filosofo-conduttore suggerisce una breve riflessione su una tematica preferibilmente legata al contesto geo-storico in cui ci si trova (un lago, una montagna, una costa sul mare, una città affollata…). Quindi, man mano che si procede, ciascun partecipante vi riflette: ognuno per sé, ma accanto agli altri. Durante le tre brevi soste, chi vorrà potrà regalare agli altri qualche frutto della propria riflessione.
La struttura della passeggiata è dunque di una semplicità disarmante; tuttavia, se la si vive intensamente, manifesta almeno tre valenze. Essa è un’esperienza di ascolto silenzioso, di meditazione personale e di scambio di idee: di queste tre attività insieme. Ed è proprio grazie all’intreccio (qualcuno direbbe dall’embricazione reciproca) che ciascuna riceve un plus di valore dalle altre. Affinché riesca, almeno discretamente, è necessario che i partecipanti rispettino una sola regola: la sistole e la diastole. Intendo, in senso metaforico, in-spirazione (trattenere la lingua nei minuti di silenzio) e e-spirazione (condividere la parola nei momenti di interscambio).

Valenze filosofiche
In che senso una passeggiata può qualificarsi ‘filosofica’? Ovviamente la risposta dipende dalla nostra idea di filosofia. Se con questa parola indichiamo un processo complesso, e complessivo, che – coinvolgendoci esistenzialmente – include apertura alla novità, rielaborazione mentale, dialogo intersoggettivo... la passeggiata può costituire, per la sua stessa struttura trivalente – un’ottima occasione per filosofare. Vediamolo un po’ più analiticamente.

a) La dimensione dell’ascolto
Innanzitutto è un esercizio di ascolto. Il pensiero autentico non è mai autogenerativo, neppure quando si presenta come tale: è sempre ‘risposta’ a un evento, a una voce, a un testo, a un volto, a una minaccia, a un invito, a un panorama... E’, etimologicamente, ‘respons-abile’. Le poche parole che il filosofo-conduttore pronunzia all’inizio della passeggiata dovrebbero costituire questo stimolo originario, questo appello, questa pro-vocazione: nulla di didattico né tanto meno di esotico. Piuttosto un sommesso accenno, un delicato fare cenno-a qualche aspetto del mondo o della vita che i presenti (normalmente non-filosofi di professione) hanno sotto gli occhi, o nel bagaglio della propria storia personale, ma su cui non si sono riflessivamente soffermati abbastanza. Accennare – forse anche con l’aiuto di qualche poeta – a un dato esperienziale affinché, chi voglia, lo possa ri-guardare (guardare di nuovo) con uno sguardo diverso dal solito.¹
L’ascolto dell’input iniziale avviene nel silenzio e, in silenzio, il gruppo inizia il cammino. Nelle nostre esistenze, in genere, ascoltiamo e pronunziamo molte parole: abbiamo anche il tempo di meditarle, di ruminarle, di metabolizzarle? Perfino in occasioni intellettualmente elevate rischiamo di essere sommersi da eccesso di stimoli. In uno dei suoi libri Romano Guardini ricorda che, al secondo giorno di un convegno filosofico-teologico cui egli stesso partecipava (in un paese europeo), due ospiti giapponesi fecero le valigie e si congedarono, educatamente, in anticipo: “Dieci ore al giorno di conferenze e di dibattiti, senza pause di silenzio meditativo, sono troppe per noi. Non le reggiamo”. Siamo così poco abituati a tacere che, nel corso della passeggiata, avvertiremo forte la tentazione di sussurrare all’orecchio del vicino un’impressione, un commento: forse proprio all’orecchio di una stessa persona a cui non abbiamo rivolto la parola durante tutte le ore precedenti e a cui non ci capiterà di rivolgerla nelle ore successive. Eppure la saggezza è anche capacità di tacere.

b) La dimensione creativa ‘originale’
Ascoltare, tacere. Fare vuoto, farsi spazio accogliente insomma: ma in funzione di una produzione di idee. Se nel corso di una pratica non zampillano intuizioni, non si operano associazioni di idee, non si traggono deduzioni logiche... è improprio usare l’aggettivo qualificativo ‘filosofica’. Si potrebbe dire che una pratica è filosofica nella misura in cui promuove pensieri originali. Ma a patto di precisare subito in che senso. Infatti può capitare che filosofando si producano concetti ‘originali’ nel senso di inediti, inauditi: l’asserto fichtiano dell’auto-posizione dell’Io mi sembrerebbe uno di questi. Negli anni della mia formazione universitaria il docente più brillante e più noto in Facoltà, Armando Plebe, sosteneva – a voce e anche in qualche pubblicazione – che una teoria è tanto più filosofica quanto più nuova, spiazzante, imprevista. Un’immagine a lui cara per rappresentare il ruolo sociale del filosofo era il clown capace di stupire il pubblico con espressioni – verbali e gestuali – ogni volta inaspettate. E’ davvero così? Personalmente ritenevo, e ritengo, di no. Ricordo con simpatia un pranzo, durante un convegno, con Gustavo Bontadini, noto in quegli stessi anni per la sua ripresa di Parmenide e per essere stato docente di Emanuele Severino: tra un bicchiere di vino e l’altro rimarcava – con l’arguzia che lo contraddistingueva – la differenza in filosofia fra una “scoperta” e una “trovata”. Ci sono tesi ‘filosofiche’ che mettono in crisi il pubblico perché – destrutturando il ‘noto’ – evidenziano il ‘vero’; altre, molto meno ‘filosofiche’, stupiscono senza illuminare la realtà: sono più delle ‘trovate’ che delle ‘scoperte’. Qualora, invece, un ragazzo di sedici anni ‘veda’, per la prima volta in vita sua, la differenza kantiana fra imperativi ipotetici e imperativo categorico sta accadendo un evento originale in senso autenticamente filosofico: paragonabile all’originalità caratterizzante la pagina in cui Kant ha espresso quella differenza (che, mi pare, nessun altro aveva intuito nella storia occidentale prima di lui). Nelle pratiche filosofiche – consulenza inclusa – dobbiamo auspicare l’elaborazione di idee originali in un’accezione assai vicina a quanto scriveva Pierre Hadot. Dopo aver citato alcune delle Réflexions et maximes di Luc de Clapiers de Vauvenargues (“Ogni pensiero è nuovo quando l’autore lo esprime in una maniera che è sua propria”; “Ci sono molte cose che sappiamo male e che è molto bene ridire”; “Un libro nuovo e davvero originale sarebbe quello che facesse amare vecchie verità”), così continua: “Mi auguro, in questo senso, di essere stato «davvero nuovo e davvero originale», cercando di fare amare vecchie verità. Vecchie verità... poiché ci sono verità di cui le generazioni umane non giungeranno mai a esaurire il senso; non che siano difficili da capirsi, al contrario sono estremamente semplici, spesso hanno persino l’apparenza della banalità; ma, precisamente per comprenderne il senso occorre viverle, occorre rifarne incessantemente l’esperienza: ogni epoca deve riprendere questo compito, imparare a leggere e a rileggere queste «vecchie verità»”.²

c) La dimensione della condivisione sommessa
Il silenzio, la rielaborazione personale: una terza valenza è il dono delle proprie riflessioni. Non è obbligatorio intervenire e, chi lo decida, deve provare ad astenersi da ogni intenzione proselitistica e – cosa ancor più ardua – da ogni moto esibizionistico. L’atteggiamento di fondo dovrebbe essere lo spirito di semplicità: io supero la ritrosia, dovuta a timidezza o a paura di essere giudicato inadeguato, e ti regalo ciò che mi si è configurato nella mente. Se ti va, lo raccogli; se non ti va, lo lasci cadere senza obiezioni né polemiche. Non è tecnicamente un dialogo filosofico perché non è previsto il ping pong, la tesi e l’antitesi, l’affermazione e la negazione; tuttavia è uno scambio in cui – senza la stringente morsa della dialettica – ciascuno può, nell’ascolto silenzioso di vari punti di vista, mettere le proprie convinzioni alla prova di voci ‘altre’.

Alla fine della passeggiata è possibile prevedere uno spazio per comunicare al gruppo l’interpretazione dell’esperienza che si è vissuta. Come quando Nino confidò di aver provato la sensazione di partecipare a “una processione laica: un momento di spiritualità intensa che non ho mai sperimentato neppure quando, da ragazzino, frequentavo ancora le chiese...”.

La verifica
Ma quando una passeggiata – come ogni altra pratica filosofica – può dirsi “riuscita”? Quali obiettivi deve raggiungere? Con quale metro va misurata la sua efficacia? Va precisato subito: non ha obiettivi ‘utili’ prefissati. Ha senso solo in un orizzonte di gratuità, di assenza di risultati ‘tangibili’.
E’ gratuita già in quanto passeggiata: “Gli uomini che hanno potere dovrebbero scendere dalle auto blindate e iniziare a passeggiare. Una passeggiata vuol dire essere restituiti alla strada e alla nudità casuale delle persone, guardare gli alberi, i palazzi o il mare, inseguire pensieri spesso splendidamente banali. Passeggiare vuol dire avere un cane per amico, oppure un amico libero come un cane, con cui parlare di tutto, uno che ti ascolta e ha voglia di perdere tempo con te. […] Passeggiare è giocare dolcemente con la giornata, decidere che ne puoi perdere un pezzo perché lo vuoi guadagnare. […] Passeggiare vuol dire infiltrare un po’ di vacanza in ogni giornata, lasciare aperta una fessura nel quotidiano, sapendo che la sorpresa può entrare anche dalle porte strette. […] Passeggiare è un’arte povera, un far niente pieno di cose”.³

Filosofia per la vita - Franco Cassano

Se già il passeggiare non implica uno scopo preciso, neppure gli scambi tra i passeggiatori ne devono veicolare. Non è facile intervenire in un cerchio senza intenzioni tattiche o strategiche premeditate. Di solito parliamo per convincere della validità di una nostra idea politica o religiosa, della bontà di un prodotto o di un servizio che vogliamo vendere; parliamo per difenderci o per attaccare, per esaltare il nostro ego o per umiliare l’ego altrui; talora per convertire o per istruire o per curare, in qualche modo per prestare ‘aiuto’ (ciò che in buona fede riteniamo tale) a chi sappiamo, o supponiamo, ne abbia bisogno. Molti, se non proprio tutti, questi ‘usi’ della parola sono legittimi, anzi indispensabili. Ma non esauriscono la gamma delle possibilità antropologiche. Oltre che denotativo e connotativo, oltre che performativo, il linguaggio di cui siamo capaci è evocativo. Siamo dotati anche di parola che emana spontaneamente ex abundantia cordis, dalla sovrabbondanza dell’animo: la parola in-utile, non-funzionale. La parola in qualche misura poetica che trascende il piano delle contrattazioni, dei progetti operativi: rivolta a tutti (in generale) e a nessuno (in particolare), tranne forse che a sé stessi. Abbiamo perduto il gusto di questa comunicazione ‘bella’ perché, direbbe Kant, “senza scopo”: una comunicazione di cui godere (fruire) senza preoccuparsi degli effetti utili. Ma è solo quando ciò accade che sperimentiamo la saggezza innata del grillo, della cicala, dell’usignolo... e del gelsomino che emana profumo per null’altro motivo che il piacere di emanarlo.
L’assenza di finalità utilitaristiche nella comunicazione filosofico-meditativa non esclude che, di fatto e per così dire preterintenzionalmente, essa possa risultare a posteriori un arricchimento della nostra soggettività. Come si esprime, sulle orme di Karl Gustav Jung, Eugen Drewermann, ci sono “melodie, ci sono parole, ci sono immagini, ci sono canti che, come assopiti, sono soltanto in noi, nella nostra anima, ed esprimerli e cantarli costituisce il compito centrale della nostra vita. Solamente per questo scopo siamo stati creati; e nessun altro compito è più importante che scoprire quale ricchezza c’è in noi. Solo allora il nostro cuore diventa tutto, solo allora la nostra anima si dilata, solo allora il nostro pensiero si fa forte”.
Nulla di strano, dunque, che si esca da una passeggiata filosofica comunitaria più allegri o più istruiti o più determinati a realizzare i propri desideri o più sollevati dalle pene di quella fase della vita o... Ma questi e altri risultati saranno effetti collaterali (desiderabili) di un’esperienza in sé non strumentalizzabile: filosofare in libertà.


Augusto Cavadi


¹ Alcune di queste riflessioni-spunto le ho raccolte in un libretto, nato da una breve vacanza filosofica in barca a vela organizzata da Agnese Previtali: Il mare, com’è profondo il mare..., Diogene Multimedia, Bologna 2017. Per ragioni intuibili, alcuni di questi testi mi sono riusciti particolarmente adatti nell’introdurre le passeggiate filosofiche nel corso delle varie edizioni del “Festival della filosofia d’a-mare” da me organizzate sia nell’isola di Favignana (2014, 2015) che nel comune di Castellammare del Golfo (2016, 2017, 2018, 2019).
² P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino 1988, p. 68. Cfr. l’incastonamento delle righe di Hadot che ho presentato nel capitolo Libertà dall’ossessione dell’originalità nel mio La filosofia come terapia dell’anima. Linee essenziali per una spiritualità filosofica, Diogene Multimedia, Bologna 2019, pp. 131-135.
³ F. Cassano, Modernizzare stanca. Perdere tempo, guadagnare, Laterza, Bari–Roma 2001, pp. 149-150.
E. Drewermann, Parole per una terra da scoprire, a cura di K. Walter, Queriniana, Brescia 1993, ed. or. 1990, p. 80.
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16 maggio 2024

Filosofia in carcere, concluso il corso al Pagliarelli di Palermo

• Augusto Cavadi •


Filosofia per la vita - Filosofia in carcere - Augusto Cavadi
Nella mattina di mercoledì 15 maggio 2024 si è concluso, presso la Casa circondariale "Pagliarelli" di Palermo, il corso di "filosofia-in-pratica" a cura dell'Asvope (Associazione di volontariato penitenziario). I 12 detenuti che vi hanno preso parte hanno esposto la sintesi dell'esperienza, evocando alcuni temi affrontati in circolo con Francesco Chinnici, Maria Antonietta Spinosa e me: l’importanza della riflessione personale per conquistare la libertà delle proprie scelte di vita; la ricchezza del confronto dialogico con chi la pensa differentemente da noi; la differenza fra “ben-essere” e “ben-avere”; l’insufficienza del PIL di una nazione per misurare la qualità della vita dei cittadini; la tavola dei “valori” che danno sapore e senso all’esistenza umana...
Gli interventi hanno, inoltre, evidenziato la soddisfazione per il clima paritetico di ogni sessione: ognuno aveva diritto di parola esattamente come ogni altro, indipendentemente dai ruoli istituzionali (detenuto, docente volontario, educatore carcerario, etc.), senza che qualcuno si arrogasse compiti pedagogici o terapeutici o catechetici.

L'incontro è stato arricchito dalla presenza del dott. Santi Consolo, attuale Garante dei detenuti per la Sicilia, al quale i presenti hanno consegnato una lettera-pro memoria con l'elenco di alcune criticità sofferte per ragioni strutturali (nonostante l'impegno soggettivo di tutto il personale preposto all'amministrazione e alla gestione della Casa): difficoltà a sottoporsi a visite mediche e ancor più ad accertamenti specialistici in strutture ospedaliere; sovraffollamento nelle celle, prive di riscaldamento; frequente mancanza di acqua calda nelle docce; impossibilità di privacy nelle videochiamate con i familiari; assenza di collegamenti telematici per chi segue corsi universitari...

A sua volta il dott. Consolo (accompagnato nella biblioteca sede delle sessioni di "pratica filosofica" dalla Direttrice Maria Luisa Malato e dalle dott.sse Marisa Di Pasquali e Donatella Farruggia), senza accenti retorici ma con palpabile empatia umana, ha esposto le difficoltà oggettive sistemiche (di natura sia normativa che burocratico-amministrativa) con cui si devono fare i conti e ha ribadito la sua volontà di affrontarle (pur nei limiti ben circoscritti della sua attuale funzione di stimolo e di moral suasion).

L'incontro si è concluso con la consegna degli attestati di partecipazione, di alcuni libri e segnalibri-ricordo (nei quali veniva riportata la poesia di Erri De Luca “Valore”) nonché con un momento conviviale che – secondo l'espressione di un detenuto presente – ha regalato «un momento di vita normale» rompendo la monotonia della condizione carceraria.


Augusto Cavadi


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11 maggio 2024

Festival Filosofico per non filosofi di professione, 12-14 Luglio 2024, Gibilrossa (PA)

• Augusto Cavadi •

Filosofia per la vita: festival filosofico a Gibilrossa (PA), Luglio 2024

Scuola di formazione etico-politica "Giovanni Falcone"
Associazione di volontariato no-profit - Palermo


organizza il

FESTIVAL FILOSOFICO
PER NON FILOSOFI DI PROFESSIONE
III Edizione

• Gibilrossa (Palermo) •
Da Venerdi 12 a Domenica 14 Luglio 2024



PROGRAMMA

Venerdì 12 Luglio
Ore 17,00: Accoglienza e sistemazione.
Ore 18,00 – 19,00: Passeggiata filosofica con Augusto Cavadi. Si parte dall'Obelisco Garibaldino.
Ore 20,00: Cena sociale (su prenotazione).
Ore 21,30: Laboratorio di pittura relazionale a cura di Federica Romeo.

Sabato 13 Luglio
Ore 10,00 – 12,00: "La 'restanza' come opportunità esistenziale", conversazione con Giorgio Gagliano.
Ore 13,00: Pranzo sociale vegetariano (su prenotazione).
Ore 16,30 - 18,30: Laboratorio di danze popolari. Conduce Roberta Megna.
Ore 20,00: Cena sociale (su prenotazione).
Ore 21,30: Concerto di musica folk by Fòlkestra.

Domenica 14 Luglio
Ore 10,00 – 12,00: "Il dotto strabismo: un occhio qui, un altro nel tutto", conversazione di gruppo introdotta e moderata da Augusto Cavadi con la partecipazione di Angelo Nuzzo.
Ore 13,00: Pranzo sociale (su prenotazione).



NOTE TECNICHE

Tranne diversa indicazione, tutte le attività si svolgeranno presso casa Mantero, Gibilrossa (PA), via dei Picciotti n.8.


Quota d'iscrizione: 15 euro per ogni giorno (30 euro il pacchetto completo di 3 gg.). Soci EPYC: euro 5 al giorno (10 euro il pacchetto completo di 3 gg.) .

Pasti: Pranzo 15 euro, Cena 15 euro.

PERMANENZA
• Soggiorno da Gloria "Gibilrossa BeeHill"
Cell.: 320 9042508 - Email: beeclaireguesthouse@gmail.com
• Hotel Miravalle** (a meno di 10 minuti in auto dal luogo delle riunioni).
Tel.: 091 8722788

PER INFO E PRENOTAZIONI:
• Federica - 331 2815442 - federica.mantero@gmail.com
• Augusto - 338 4907853
• Giorgio - 327 6952855
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9 aprile 2024

"XXVII Settimana Filosofica per... non filosofi" - Vallombrosa (FI), 19-25 Agosto 2024

• Augusto Cavadi •

Vallombrosa

• INVITO •

Il gruppo editoriale "Il pozzo di Giacobbe" - "Di Girolamo" di Trapani

organizza la

XXVII SETTIMANA FILOSOFICA PER... NON FILOSOFI

Per chi: Destinatari della proposta non sono professionisti della filosofia ma tutti coloro che desiderano coniugare i propri interessi intellettuali con una rilassante permanenza in uno dei luoghi tra i più gradevoli del Bel Paese, cogliendo l’occasione di riflettere criticamente su alcuni temi di grande rilevanza teorica ed esistenziale.

Dove e quando: Vallombrosa (Firenze), a 1.000 metri s.l.m., da Lunedì 19 a Domenica 25 Agosto 2024.


Su che tema:

"Pensare la guerra, progettare la pace"



Le "vacanze filosofiche per... non filosofi", avviate sperimentalmente sin dal 1983, si sono svolte regolarmente dal 1998. Per saperne di più si possono leggere: Autori vari, Filosofia praticata. Su consulenza filosofica e dintorni (Di Girolamo, Trapani 2008); oppure: A. Cavadi, Filosofia di strada. La filosofia-in-pratica e le sue pratiche (Di Girolamo, Trapani 2010); oppure: A. Cavadi, Mosaici di saggezze (Diogene Multimedia, Bologna 2015).
È attivo anche il sito https://vacanze.filosofiche.it generosamente gestito da Salvatore Fricano (Bagheria) per sapere tutto sulla prossima edizione (compresi eventuali aggiornamenti).



Programma orientativo

Arrivo nel pomeriggio (possibilmente entro le ore 19) di lunedì 19 agosto e primo incontro alle ore 21. La partecipazione alle riunioni è ovviamente libera, ma chi decida di partecipare è pregato di rispettare la puntualità. Si precisa inoltre che le riunioni non subiranno spostamenti per far posto a iniziative private.

Sono previsti due seminari giornalieri, dalle ore 9,00 alle 10,30 e dalle 18,15 alle 19,45, sui seguenti temi:

• La guerra e la pace nel pensiero greco, medievale e moderno
• La logica amico/nemico
• Un dialogo fra Einstein e Freud
• Basi neuro-scientifiche dell’aggressività e della cooperazione

I seminari saranno introdotti a turno da Augusto Cavadi (Palermo), Andrea Cozzo (Palermo), Orlando Franceschelli (Roma), Mario Mulè (Palermo), Elio Rindone (Roma).

È possibile chiedere all'albergo di anticipare e/o posticipare di qualche giorno il soggiorno.

Partenza dopo l'incontro conclusivo (9,30-12,00) di Domenica 25 Agosto.


Costo

L'iscrizione al corso (comprensiva dei materiali didattici) è di euro 180 a persona. Chi si iscrive entro il 30 giugno ha diritto a uno sconto di 30 euro. Le coppie che si iscrivono entro tale data avranno un ulteriore sconto di 15 euro a persona. Eccezionalmente si può partecipare a uno dei 12 incontri (euro 10). Ognuno è libero di trovare il genere di sistemazione (albergo, camping o altro) che preferisce. Chi vuole, può usufruire di una speciale convenzione che il comitato organizzatore (che come sempre non può escludere eventuali sorprese positive o negative) ha stipulato con:

Hotel Rifugio "La Foresta", Via San Giovanni Gualberto 2, Vallombrosa (FI)
Tel. 055 8022158 - Email: info@hotelrifugiolaforesta.com (a cui ci si può rivolgere per la prenotazione delle camere e il versamento del relativo acconto) - Sito web: https://www.hotelrifugiolaforesta.com
Si consiglia di chiedere l’iscrizione per tempo, poiché il numero delle camere è limitato, facendo riferimento alla convenzione particolare col gruppo di filosofia.
La mezza pensione (prima colazione e cena), comprensiva di bevande, costa a persona (oltre alla tassa di soggiorno di 1,50 euro a persona al giorno):
• in camera singola (con bagno) € 75 al giorno.
• in camera doppia (con bagno) € 60 al giorno.


Avvertenze tecniche

Per l'iscrizione ai seminari, dopo aver risolto la questione logistica, inviare l’acclusa scheda d’iscrizione e la copia (anche mediante scanner) del versamento di € 50,00 a persona, a titolo di anticipo sulla quota complessiva, a: Annamaria Pensato (Cell./WhatsApp: 329 7337883 - Email: annamaria.pensato@gmail.com e, per conoscenza, all'indirizzo a.cavadi@libero.it). In caso di mancata partecipazione alla vacanza-studio, detta somma non verrà restituita. La prenotazione al seminario non è valida finché non è stato effettuato il versamento e la data del bonifico fa fede per lo sconto!

Scheda di iscrizione (cliccare per ingrandire / scaricare / stampare)
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3 aprile 2024

Visione dell’uomo e pratiche terapeutiche

• Condiviso da Augusto Cavadi •


Filosofia per la vita - Pratiche terapeutiche
“Nel 1992 organizzai presso la UCLA un gruppo di ricerca interdipartimentale per studiare le connessioni tra la mente ed il cervello”. Presto però mi accorsi “che non c’era una visione condivisa della mente e nessun vocabolario condiviso per discuterne”: così Daniel Siegel in "Mindsight. La nuova scienza della trasformazione personale" (Raffaello Cortina Editore, Milano 2011).

Daniel Siegel
Daniel J. Siegel, psichiatra
Alla fine il gruppo interdisciplinare arrivò a condividere una definizione che era “un necessario punto di partenza dal quale iniziare la nostra esplorazione insieme”.
Ritengo che un problema simile siano chiamati ad affrontarlo quanti si propongano di agire per l’uomo e per la vita. Per restare nel mio ambito disciplinare (psichiatrico e psicoterapeutico), ritengo che, se arriva nella nostra stanza chiedendo un aiuto una persona depressa, sia più corretto considerare che abbiamo di fronte un uomo depresso, piuttosto che semplificare la situazione clinica trattando una entità(?) che è stata denominata 'depressione'. Ma se vogliamo veramente incontrare un uomo in concreto, non è forse necessario avere un’idea di chi sia l’uomo in generale?
Disponiamo forse di una definizione condivisa? Una definizione di uomo non la troviamo certo nella letteratura psichiatrica. Attualmente è quasi un obbligo nel lavoro clinico fare riferimento al DSM-5, un manuale che descrive in modo dettagliato i sintomi di ogni disturbo ed altri aspetti ritenuti utili ed oggettivabili, senza porsi altre domande.
Non trovando alcuna definizione di uomo nella letteratura psichiatrica a mia disposizione, ho pensato che potevo cercarla nel vocabolario della lingua italiana Treccani: “Uomo: essere cosciente e responsabile dei propri atti…”. Se essere “coscienti e responsabili” è un requisito necessario per definire l’uomo, quanti soggetti dobbiamo escludere? Tutti gli uomini sono coscienti e responsabili? E chi non ha queste qualità non è un uomo?
Secondo Siegel tuttavia non possiamo rinunciare a questo punto di partenza necessario per potere procedere oltre. E anche se non disponiamo di una definizione, possiamo utilizzare una descrizione delle sue qualità essenziali come punto di partenza. E vedere se le diverse idee sull’uomo ci portano verso modi diversi di vivere e di agire in questo mondo.

Edgar Morin
Edgar Morin, filosofo e sociologo
La concezione antropologica di E. Morin
Possiamo trovare un primo esempio in un pensiero di Edgard Morin: “L’essere umano è un essere ragionevole e irragionevole, capace di misura e dismisura; soggetto di una affettività intensa e instabile, sorride, ride, piange, ma sa anche conoscere oggettivamente; è un essere serio e calcolatore, ma anche ansioso, angosciato, gaudente, ebbro, estatico; è un essere di violenza e di tenerezza, di amore e di odio; è un essere pervaso dall’immaginario e che può riconoscere il reale; è un essere che conosce la morte e non può credervi, che secerne il mito e la magia, ma anche la scienza e la filosofia; è posseduto dagli Dei e dalle idee, ma dubita degli Dei e critica le idee; si nutre di conoscenze verificate, ma anche di illusioni e chimere”.*
Questa è l’antropologia (in senso filosofico) di Edgard Morin.

Carl Rogers
Carl Rogers, psicologo
La concezione antropologica di C. Rogers
Un altro punto di vista sull’essere umano – frutto di osservazione e di ricerca in contesti psicoterapeutici sia duali che gruppali – ci viene proposto da Carl Rogers nel suo celebre "La terapia centrata sul cliente" (Giunti Editore, Firenze 2019): “Contrariamente a quei terapeuti che vedono la depravazione alla radice dell’uomo, che considerano i più profondi istinti dell’uomo come distruttivi, io ho scoperto che, quando è veramente libero di diventare ciò che egli è sul piano profondo, quando è libero di realizzare la propria natura come organismo umano e quindi capace di consapevolezza, allora egli appare chiaramente muoversi verso la totalità e l’integrazione (…), allora è degno della massima fiducia”.

Conseguenze pratiche delle diverse visioni dell’essere umano
Fra le tante descrizioni dell’uomo, è dunque possibile rintracciarne di molto diverse. Ma quali sono le conseguenze di queste differenti visioni? Come agiscono su di noi? Come influiscono sul nostro modo di agire nel mondo?
Per Morin la naturale conseguenza del riconoscimento della complessità è la riforma del pensiero. Prima di ogni altra cosa da fare, prima di agire dobbiamo riconoscere e superare la miopia, la visione settoriale con cui guardiamo alla vita. Se l’uomo e la sua azione nel mondo hanno il carattere della “complessità” (a volte anche della contraddittorietà) solo un pensiero complesso può consentirci di capire la realtà e di agire a favore della vita. Anzi, è proprio questa “riforma del pensiero” la missione più importante dell’intellettuale; più in generale è una méta che nel mondo contemporaneo si è resa necessaria. Dobbiamo riuscire a traghettare da un pensiero “settoriale”, spesso chiuso in se stesso, ad un pensiero “globale”, capace di abbracciare la molteplicità del reale: un pensiero che può consentirci di riconoscere fra tante altre realtà “la comunità del destino”, un’umanità che va guardata come un insieme unitario impegnato nella salvaguardia della vita su questo pianeta, senza negare le differenze e le specificità.
La proposta di Rogers ovviamente è molto differente. Se infatti, come viene da lui affermato, l’essere umano nella sua natura è potenzialmente degno della massima fiducia purché liberato dai condizionamenti acquisiti nel tempo, allora il compito di chi vuole aiutare un uomo nei più vari contesti (quindi non solo all’interno di un incontro psicoterapeutico) è di progettare e realizzare le condizioni che rendano possibile la sua liberazione. Tali condizioni – rivelatesi efficaci nell’esperienza psicoterapeutica – a suo parere necessarie e sufficienti per avviare e completare la liberazione dell’uomo, anche in contesti differenti, sarebbero tre: autenticità del facilitatore, accettazione incondizionata dell’altro, accurata empatia.
Mi sembra che queste due esemplificazioni (Morin e Rogers) ci mostrino come le diverse visioni antropologiche indichino percorsi e compiti differenti nel nostro rapporto col mondo.
Un’ultima riflessione: pur essendo visioni molto diverse, a me sembra che abbiano in comune il desiderio e l’impegno di portare un aiuto a questa umanità, oggi così gravata di incertezze e paure per un futuro che si profila catastrofico per l’intero pianeta e per la stessa specie Homo sapiens.


Mario Mulè



(*) E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Cortina, Milano 2001, pp. 60-61, cit. in A. Cavadi, Tremila anni di saggezza. La spiritualità nella storia della filosofia, Diogene Multimedia, Bologna 2020, p. 86.
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