• Anna Colaiacovo •
La ricerca della felicità è il fine dell’uomo contemporaneo. Intorno al concetto di felicità, come imperativo sociale e morale da perseguire, si è imposto un modello, partito dagli Stati Uniti verso la fine del secolo scorso, che si è perfettamente saldato con il neoliberismo e con il consumismo. Un modello che si è diffuso nell’area occidentale del pianeta attraverso la commercializzazione di libri e prodotti di ogni tipo.
Di quale felicità stiamo parlando?
Del benessere che può raggiungere l’individuo convinto che deve contare solo su se stesso e che, indipendentemente dalle circostanze esterne, deve lavorare su di sé per diventare sempre più produttivo e determinato a raggiungere successo e ricchezza. Questo modello è sostenuto da un’idea di fondo che parte da Hobbes e si sviluppa attraverso il liberalismo: gli individui sono motivati essenzialmente da passioni egoistiche, che possono essere regolate solo dal mercato e da istituzioni artificiali come lo Stato. Trasmette il messaggio che la vita è un gioco duro in cui ognuno gioca per sé e, se vuole vincere, in una società dominata da leggi di mercato spietate e da uno Stato che deve (dovrebbe?) regolarne gli effetti, non può fidarsi di nessuno (come nei reality show). Stiamo parlando di un individuo che si percepisce come autonomo e con desideri illimitati, cardine di un sistema economico che ha bisogno di una continua crescita. Un sistema che scarta i soggetti più deboli e che addebita, sempre e comunque all’individuo stesso, la responsabilità del fallimento. Nella ‘industria della felicità’, il grande assente è la collettività. Valori come giustizia, fiducia, solidarietà, compassione non sono contemplati. Anzi, sono dannosi perché ostacolano il successo. Prevalgono, invece, l’ancoraggio al presente, la soddisfazione immediata del desiderio, il primato delle emozioni sui sentimenti, la tendenza ai legami deboli, facilmente gestibili e di breve durata.
L’esperienza del Covid, in cui ci siamo ritrovati improvvisamente fragili e vulnerabili, ovvero soggetti in relazione e non autonomi e sovrani, ci ha posto di fronte a tanti nostri limiti e ci ha fatto cogliere l’importanza del rapporto con gli altri e la necessità della cura. Non è riuscita però, una volta superata l’epidemia, a intaccare il nostro stile di vita. Siamo tornati velocemente a vivere come prima, quantomeno a desiderarlo.
Ma, questa condizione ci rende felici? O non è forse “meglio – come sosteneva John Stuart Mill – essere un Socrate scontento piuttosto che un maiale soddisfatto?”
In realtà, secondo Marcello Veneziani, che sull’argomento ha scritto il libro “Scontenti-perché non ci piace il mondo in cui viviamo” ¹, oggi il modello prevalente non è il Socrate scontento, e neppure il maiale soddisfatto. È, invece, il maiale insoddisfatto. Abbiamo scoperto che la società del benessere non genera felicità, ma produce scontentezza. Anche se si vive più a lungo rispetto al passato e in migliori condizioni, lo scontento è, infatti, il sentimento prevalente nel nostro tempo. Un tempo dominato dall’egocentrismo, da desideri illimitati alimentati dal mercato, e dal rischio continuo del mancato riconoscimento di sé che, da un lato, produce frustrazione e sintomi depressivi; dall’altro, astio e rancore. Inoltre, rispetto al passato anche recente, viviamo prigionieri del presente, senza più rapporti con la memoria storica e senza alcuna fiducia nel futuro, che non è più visto come una promessa ma è diventato una minaccia. É come se avessimo la percezione di attraversare un punto di non ritorno: l’indebolirsi del pensiero, l’assenza del trascendente, la mancata consapevolezza di ciò che abbiamo perduto (la storia), lo sviluppo della tecnica e il rischio di esserne dominati. Da qui, lo spaesamento.
Come si può governare lo scontento? Veneziani suggerisce di ripartire da ciò che siamo, dalla accettazione della nostra imperfezione e dei nostri limiti (amor fati), vivendo senza scontento né soddisfazione permanente.
É una possibile via d’uscita individuale dallo scontento. Ma, è questa l’unica soluzione? La percezione di sé come essere vulnerabile potrebbe anche diventare un punto di partenza per agire nel mondo in modo diverso. Habermas, sulla imperfezione e caducità dell’esistenza umana, fonda il comportamento morale: «Io intendo il comportamento morale come una risposta costruttiva a dipendenze e bisogni che sono radicati nell’imperfezione della dotazione organica e nella perdurante caducità dell’esistenza umana (in modo più evidente nelle fasi infantili, patologiche e senili della vita)».²
Per affrontare le sfide del nostro tempo, secondo Elena Pulcini, sono necessarie cura e giustizia:³ «Da un lato abbiamo bisogno della giustizia, per far fronte a disuguaglianza e sfruttamento, umiliazione e povertà; dall’altro scopriamo l’urgenza della cura contro l’atomismo e l’indifferenza, l’erosione del legame sociale, l’incuria verso il mondo vivente e la drammatica condizione dell’ambiente».
La consapevolezza della nostra fragilità e il bisogno di relazione – la solitudine è uno dei grandi problemi del nostro tempo – sono fondamentali per alimentare la lotta contro l’ingiustizia e per sviluppare la capacità di un’autentica cura. A condizione di fondare la giustizia non sulla sola razionalità e su un astratto individualismo, ma partendo dalle rivendicazioni concrete delle persone, e di intendere la cura come qualcosa che ci riguarda tutti.
Di quale felicità stiamo parlando?
Del benessere che può raggiungere l’individuo convinto che deve contare solo su se stesso e che, indipendentemente dalle circostanze esterne, deve lavorare su di sé per diventare sempre più produttivo e determinato a raggiungere successo e ricchezza. Questo modello è sostenuto da un’idea di fondo che parte da Hobbes e si sviluppa attraverso il liberalismo: gli individui sono motivati essenzialmente da passioni egoistiche, che possono essere regolate solo dal mercato e da istituzioni artificiali come lo Stato. Trasmette il messaggio che la vita è un gioco duro in cui ognuno gioca per sé e, se vuole vincere, in una società dominata da leggi di mercato spietate e da uno Stato che deve (dovrebbe?) regolarne gli effetti, non può fidarsi di nessuno (come nei reality show). Stiamo parlando di un individuo che si percepisce come autonomo e con desideri illimitati, cardine di un sistema economico che ha bisogno di una continua crescita. Un sistema che scarta i soggetti più deboli e che addebita, sempre e comunque all’individuo stesso, la responsabilità del fallimento. Nella ‘industria della felicità’, il grande assente è la collettività. Valori come giustizia, fiducia, solidarietà, compassione non sono contemplati. Anzi, sono dannosi perché ostacolano il successo. Prevalgono, invece, l’ancoraggio al presente, la soddisfazione immediata del desiderio, il primato delle emozioni sui sentimenti, la tendenza ai legami deboli, facilmente gestibili e di breve durata.
L’esperienza del Covid, in cui ci siamo ritrovati improvvisamente fragili e vulnerabili, ovvero soggetti in relazione e non autonomi e sovrani, ci ha posto di fronte a tanti nostri limiti e ci ha fatto cogliere l’importanza del rapporto con gli altri e la necessità della cura. Non è riuscita però, una volta superata l’epidemia, a intaccare il nostro stile di vita. Siamo tornati velocemente a vivere come prima, quantomeno a desiderarlo.
Ma, questa condizione ci rende felici? O non è forse “meglio – come sosteneva John Stuart Mill – essere un Socrate scontento piuttosto che un maiale soddisfatto?”
In realtà, secondo Marcello Veneziani, che sull’argomento ha scritto il libro “Scontenti-perché non ci piace il mondo in cui viviamo” ¹, oggi il modello prevalente non è il Socrate scontento, e neppure il maiale soddisfatto. È, invece, il maiale insoddisfatto. Abbiamo scoperto che la società del benessere non genera felicità, ma produce scontentezza. Anche se si vive più a lungo rispetto al passato e in migliori condizioni, lo scontento è, infatti, il sentimento prevalente nel nostro tempo. Un tempo dominato dall’egocentrismo, da desideri illimitati alimentati dal mercato, e dal rischio continuo del mancato riconoscimento di sé che, da un lato, produce frustrazione e sintomi depressivi; dall’altro, astio e rancore. Inoltre, rispetto al passato anche recente, viviamo prigionieri del presente, senza più rapporti con la memoria storica e senza alcuna fiducia nel futuro, che non è più visto come una promessa ma è diventato una minaccia. É come se avessimo la percezione di attraversare un punto di non ritorno: l’indebolirsi del pensiero, l’assenza del trascendente, la mancata consapevolezza di ciò che abbiamo perduto (la storia), lo sviluppo della tecnica e il rischio di esserne dominati. Da qui, lo spaesamento.
Come si può governare lo scontento? Veneziani suggerisce di ripartire da ciò che siamo, dalla accettazione della nostra imperfezione e dei nostri limiti (amor fati), vivendo senza scontento né soddisfazione permanente.
É una possibile via d’uscita individuale dallo scontento. Ma, è questa l’unica soluzione? La percezione di sé come essere vulnerabile potrebbe anche diventare un punto di partenza per agire nel mondo in modo diverso. Habermas, sulla imperfezione e caducità dell’esistenza umana, fonda il comportamento morale: «Io intendo il comportamento morale come una risposta costruttiva a dipendenze e bisogni che sono radicati nell’imperfezione della dotazione organica e nella perdurante caducità dell’esistenza umana (in modo più evidente nelle fasi infantili, patologiche e senili della vita)».²
Per affrontare le sfide del nostro tempo, secondo Elena Pulcini, sono necessarie cura e giustizia:³ «Da un lato abbiamo bisogno della giustizia, per far fronte a disuguaglianza e sfruttamento, umiliazione e povertà; dall’altro scopriamo l’urgenza della cura contro l’atomismo e l’indifferenza, l’erosione del legame sociale, l’incuria verso il mondo vivente e la drammatica condizione dell’ambiente».
La consapevolezza della nostra fragilità e il bisogno di relazione – la solitudine è uno dei grandi problemi del nostro tempo – sono fondamentali per alimentare la lotta contro l’ingiustizia e per sviluppare la capacità di un’autentica cura. A condizione di fondare la giustizia non sulla sola razionalità e su un astratto individualismo, ma partendo dalle rivendicazioni concrete delle persone, e di intendere la cura come qualcosa che ci riguarda tutti.
Anna Colaiacovo
¹ | M. Veneziani, Scontenti - Perché non ci piace il mondo in cui viviamo, Marsilio, 2022 |
² | J. Habermas, Il futuro della natura umana, Einaudi, Torino 2002, pp.36-37 |
³ | E. Pulcini, Tra cura e giustizia - Le passioni come risorsa sociale, Boringhieri, Torino 2020, p. 9 |