Nonostante sia stata “inventata” in Germania da Gerd Achenbach mezzo secolo fa, si sia diffusa in vari Paesi del mondo e sia stata importata in Italia (soprattutto grazie a Neri Pollastri) da almeno un ventennio, la professione di consulente filosofico stenta a decollare. Le ragioni sono molteplici, ma alla base di tutte la misconoscenza di ciò di cui si tratta. Infatti i canali d'informazione più diffusi o non ne parlano o ne parlano in maniera distorta, fuorviante. Proviamo a dissipare almeno qualche fraintendimento.
Nel sintagma “consulenza filosofica” il sostantivo attrae e l’aggettivo scoraggia. Il sostantivo
consulenza attrae per ragioni sbagliate o, per lo meno, opinabili: suggerisce spesso l’idea di qualcuno che ti offra la risposta pronta-da-portare a casa, ma già Kant metteva in guardia i suoi contemporanei dal rischio di delegare a esperti le proprie decisioni esistenziali.
L'aggettivo
filosofica scoraggia, invece, per motivi purtroppo ben fondati: infatti la maggior parte dei filosofi di professione non solo non si sforza di tradurre il proprio discorso in lingua volgare, ma addirittura tende a distinguersi proprio per la ricercatezza e l’originalità della terminologia (ben oltre i casi in cui astrattezza concettuale e precisione tecnica risultano inevitabili).
In questo contesto socio-culturale non c’è da meravigliarsi delle difficoltà di decollo della professione di consulenti filosofici. Urge una bonifica dell’immaginario collettivo che dia della consulenza filosofica, e prima ancora della filosofia, un’idea meno inadeguata possibile.
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Roger-Pol Droit, "La filosofia spiegata a mia figlia". Archinto, Milano 2005 |
Un libretto che, nonostante l’esiguità della mole e la modestia del titolo, ottempera efficacemente a questo scopo è senz’altro
"La filosofia spiegata a mia figlia" (Archinto, Milano 2005) di Roger-Pol Droit: testo pubblicato da quasi vent'anni che, mi pare, non abbia perduto minimamente d'attualità. Sin dalle prime battute l’autore segnala i due “tranelli” opposti dai quali bisogna guardarsi: da una parte, lasciarsi intimidire, ignorando che, per iniziare a filosofare, “bastano alcune domande e la capacità di riflettere”; dall’altra ritenere che “in fondo si tratti di una cosa facile”, banale, che non esiga nessuna attenzione specifica.
Egli, riprendendo soprattutto il Socrate platonico, spiega che il filosofo – come molti altri intellettuali – cerca la “verità”, ma la cerca da un’angolazione peculiare: “Chi cerca la verità nella matematica di solito è un matematico; chi si occupa di storia è uno storico e così via. Se anche i filosofi cercano la verità in tutte queste discipline, devono farlo in modo speciale, come se lavorassero in un campo trasversale a tutti gli altri. La soluzione non è lontana: i filosofi cercano la verità nel campo delle
idee. […] Il filosofo non si occupa di giustizia come farebbe un giudice o un avvocato. Quello che gli interessa è
l’idea di giustizia; non si occupa del potere nel modo in cui lo fa un uomo politico, cerca piuttosto di analizzare a fondo
l’idea di potere. Ed è così in tutti campi”.
Ma se il filosofo si occupa di idee, perché il matematico o lo storico, il giudice o l’avvocato o il politico dovrebbe chiedergli un incontro per chiarirsi le proprie idee (sia come professionista che, prima ancora, come essere umano)? Perché con idee confuse, opache, indistinte, si può vivere, ma con idee vagliate criticamente si può “vivere
meglio, in modo più umano, più intelligente, più ricco”: «è importantissimo sapere quali sono le idee giuste e le idee sbagliate. Immagina che qualcuno abbia un’idea sbagliata della felicità o della libertà. Vuol essere libero e felice, ma non trova la strada giusta, si smarrisce e si sforza... inutilmente! Crederà di avere ragione, ma se la sua idea è sbagliata è molto probabile che non raggiunga lo scopo e sprechi la sua vita».
Questa concezione della filosofia la si intende meglio se, andando alle spalle di molti filosofi moderni e contemporanei, si riscopre la figura originaria del sapiente-saggio: di uno che
sa (sapiente), ma
sa anche vivere (saggio). Di uno che
cerca con vivo desiderio di essere sia
saggio sia
sapiente.
I pregi del piccolo libro non lo esimono da qualche passaggio, qua e là, che si sarebbe potuto formulare con più attenzione: per esempio, là dove scrive che le risposte alle domande metafisiche sono “costruzioni intellettuali che non rientrano nel campo delle cose verificabili”, avrei aggiunto volentieri un limitativo (ad esempio: “almeno non nello stesso modo in cui sono verificabili le teorie delle scienze empiriche”) per evitare di dare l’impressione che l’esperienza, personale e collettiva, non abbia nessuna funzione di verifica delle teorie metafisiche.
Nel complesso, comunque, si tratta di uno strumento prezioso per abbattere i principali pregiudizi verso l’attività filosofica in generale e, dunque, in particolare verso la filosofia-in-dialogo che può esercitarsi nel colloquio a due in uno studio di consulenza filosofica o in altre occasioni di filosofia-in-pratica esercitata in gruppo.