MANUALE PER VIP
Rubrica a cura di Augusto Cavadi

Augusto Cavadi, Manuale per Vip
«Eh, no! Mi dispiace. Se vi siete incuriositi a questa nuova rubrica perché immaginate che parli di questo o quel Vip (dall'inglese "very important person"), rimarrete delusi. Niente pettegolezzi, indiscrezioni, dicerie: l'ottanta per cento della carta stampata e delle televisioni ne è già zeppa! Ho voluto scegliere questa sigla, invece, come abbreviazione di "Vivere in pienezza"...»
Dal post introduttivo ►
CENETTE FILOSOFICHE PER NON... FILOSOFI
(DI PROFESSIONE)
Rubrica a cura di Augusto Cavadi

Augusto Cavadi, Cenette Filosofiche
Nel 2003 alcuni partecipanti abituali alle “Vacanze filosofiche” estive¹, e residenti nella stessa città (Palermo), abbiamo esternato il desiderio di incontrarci anche nel corso dell’anno, tra un’estate e l’altra. Da qui l’idea di una cenetta quindicinale presso lo studio legale di uno di noi, Pietro Spalla, che si sarebbe incaricato di far trovare un po’ di prodotti da forno e qualche bevanda. Appuntamento alle ore 20:00 (in martedì alterni) per accogliersi a vicenda e mangiucchiare ciò che si trova sulla tavola: dalle 20:30 alle 22:00, poi, lo svolgimento dell’incontro.

La metodologia che abbiamo adottato è molto semplice: chiunque del gruppo propone un testo che si presti ad essere letto in chiave di filosofia-in-pratica (dunque non solo un classico del pensiero filosofico, ma anche un romanzo o un trattato di psicologia, un saggio di astrofisica o di botanica) e, se la maggioranza lo accetta, diventa nelle settimane successive il testo-base delle conversazioni. In esse non sono graditi gli approfondimenti eruditi (tipici dei seminari universitari) perché si vorrebbe dare spazio alle riflessioni personali, alle risonanze esistenziali e alle incidenze sociopolitiche, suggerite dal testo adottato. Uniche condizioni per la partecipazione: aver letto le pagine del libro che il gruppo si assegna di volta in volta per la riunione successiva (se non si fosse riusciti a farlo in tempo, si è pregati di assistere in silenzio) e intervenire evitando i toni polemici nei confronti dei presenti che abbiano espresso convinzioni, esperienze, ipotesi interpretative differenti dalle proprie².

La pandemia del Covid-19 ha costretto la piccola comunità di ricerca filosofica a sospendere gli incontri in presenza e a sostituirli con sessione in video-conferenza: certamente una riduzione della qualità delle relazioni fra i partecipanti, ma anche l’apertura di possibilità sino a quel momento inesplorate. Così amiche e amici di varie regioni italiane si sono collegati via internet e questa modalità di interazione ha finito col sostituire del tutto le cenette in presenza. Ci si vede direttamente alle 20:30 collegandosi mediante un link che Pietro Spalla trasmette a chiunque faccia richiesta di essere incluso nell’apposita mailing list (spalla.pietro@gmail.com).

La mailing list è diventata, sempre più, un luogo di scambi tra una cenetta e la successiva: scambi di opinioni, di commenti, di suggerimenti bibliografici, di battute umoristiche, di informazioni su eventi culturali... In questa molteplicità di interventi occasionali, non ne mancano alcuni meno estemporanei, di una certa consistenza e di un certo rilievo, che probabilmente meritano di non essere seppelliti nelle ondate di e-mail che si accavallano di giorno in giorno (talora di ora in ora).

Da qui l’idea di aprire in questo blog – www.filosofiaperlavita.it – un’apposita rubrica – “Cenette filosofiche per non... filosofi (di professione)” – che metta a disposizione, per un lasso di tempo più lungo e soprattutto per un pubblico potenzialmente più ampio, i contributi che i sostenitori finanziari della rubrica riterranno opportuno segnalare³.

Augusto Cavadi


¹ Cfr. https://vacanze.filosofiche.it
² Cfr. “Cenette filosofiche” in A. Cavadi, Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova antichissima spiritualità, Diogene Multimedia, Bologna 2016, pp. 282-284.
³ Attualmente i rimborsi delle spese di gestione di questa rubrica sono sostenuti da Caccamo A., Cavadi A., Chiesa L., Cillari E., D’Angelo G., D’Asaro M., Di Falco R., Enia A., Federici G., Galanti M., Gulì A., Leone R., Oddo G., Palazzotto A., Paterni M., Randazzo N., Reddet C., Salvo C., Spalla P., Spalla V., Santagati G., Ugdulena G., Vergani B., Vindigni E. Chi desiderasse aggiungersi al numero dei sostenitori può contattarmi alla e-mail a.cavadi@libero.it

27 settembre 2018

Mauro e Augusto alla ricerca di Dio

Manuale per Vip, rubrica a cura di Augusto Cavadi.
Caro Augusto,
vorrei passarti alcuni appunti sulla fase attuale della mia ricerca di Dio.
Mi pare che sulla questione si possano dare due – e solo due – ipotesi: dio c'è o dio non c'è.
Esaminiamole distintamente.
Prima ipotesi: dio non c'è. Non esiste nessuna entità trascendente, nessuna persona, nessun regolatore-legislatore. In questa ipotesi io vedo due casi:
• Il cosmo, l'universo, tutto ciò che vediamo e non vediamo, esiste semplicemente e ogni cosa si regola in base all'interazione casuale tra tutti gli esseri e senza un senso preciso e le leggi naturali non sono che nostre interpretazioni nel tentativo di dare un senso a ciò che semplicemente è, esiste.
• Tutto ciò che esiste interagisce seguendo precise regole e leggi universali, in un unico sistema in qualche modo (pre)ordinato.
Ma senz'altro se ne possono dare altri.
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21 settembre 2018

Selfie-mania

Filosofia per la vita - René Magritte, Il falso specchio
René Magritte, "Il falso specchio" (1928), olio su tela

Forse Steve Jobs non pensava, inserendo sui suoi smartphone la fotocamera frontale, di dare avvio a comportamenti così compulsivi e diffusi come quelli che vediamo quotidianamente. Fotografarsi e condividere le foto sui social network è diventata, oggi, una vera e propria mania.
Che cosa spinge persone di tutte le età a farsi un selfie nelle condizioni e nei luoghi più impensati? Che senso ha fotografarsi durante un funerale (è accaduto anche questo!) o in una situazione talmente precaria da mettere a rischio la propria vita? Certo, in questi comportamenti la componente narcisistica è molto forte, ma, accanto al bisogno di rappresentazione di sé, c'è un'esigenza altrettanto forte di condivisione sociale. Convivono il bisogno di specchiarsi e di testimoniare la propria presenza agli altri.
C'è, in definitiva, un problema di identità.
Nel processo di costruzione dell'identità, lo stadio dello specchio (studiato da Lacan) è un passaggio fondamentale. L'essere umano, quando nasce, non è dotato, come gli animali, di istinti che  garantiscono l'adattamento al mondo esterno. La relazione con il mondo, tra l'organismo e l'ambiente, è mediata dall'immaginario. Il bambino, tra i sei e i diciotto mesi, di fronte a uno specchio, all'inizio cerca di afferrare l'immagine che gli appare, come se si trattasse di un oggetto reale. Poi si rende conto che è un'immagine. Infine che è la sua immagine, diversa dalla madre che è con lui. In una fase in cui non ha ancora la padronanza del proprio corpo e lo vive come frammentato, il piccolo acquista una prima consapevolezza di sè come un tutto unitario (la propria immagine unificata) attraverso lo sguardo dell'altro, perché è questo sguardo che conferma che è lui.
Ho bisogno dell'altro per diventare me stesso: è questa la pietra angolare dell'identità. Ed è un processo cognitivo e affettivo insieme.
Ma chi sono io? Per dire IO abbiamo bisogno di raddoppiare noi stessi, abbiamo bisogno di un soggetto e di un oggetto: "Laddove mi vedo, non ci sono, dove ci sono, non mi vedo". (Lacan)
Da un lato c'è un corpo-pulsionale, la grande ragione del corpo (Nietzsche), dall'altro l'io immagine.
Ognuno di noi deve confrontarsi con questo doppio e con un'immagine di sè che è intima e nello stesso tempo estranea.
L'illusione narcisistica consiste nel tentativo (disperato) di far coincidere noi stessi con la nostra immagine e nel non riconoscere all'altro da noi una realtà autonoma. Nel mito, infatti, Narciso, del tutto insensibile all'amore di Eco, muore perché sprofonda nell'acqua cercando di congiungersi con la propria immagine.
Il nostro tempo alimenta l'illusione narcisistica. Il mercato globale ha bisogno di consumatori perennemente insoddisfatti (i bisogni non devono avere mai fine), sempre a rischio di perdersi davanti all'eccesso di stimoli a cui sono esposti e sempre più soli  "perché il consumo è un'attività solitaria (è perfino l'archetipo della solitudine) anche quando avviene in compagnia" (Bauman). Ne risulta una società sempre più privatizzata e priva di riferimenti certi, che stimola gli individui a contare solo sulle proprie forze, a percepire gli altri come ostacoli per la propria affermazione e a perseguire il proprio vantaggio personale. Le relazioni, se si creano, devono potersi sciogliere facilmente perché sono un impedimento verso altre opportunità, una limitazione delle libertà.
Nel tempo del capitalismo avanzato, il potere, come ci ha insegnato Foucault, non si presenta più in forma dispotica, ma entra nella vita e si insinua nei meccanismi e nei procedimenti emotivi quotidiani. Si sviluppa all'interno di un fitto reticolo mobile e concreto di rapporti, si trasforma in un potere seduttivo apparentemente innocuo rispetto al passato e prende la forma di regole comportamentali interiorizzate dai singoli. Il potere agisce sugli individui attraverso le "pratiche", perché ognuno di noi diventa quello che è attraverso quello che fa ogni giorno, attraverso i luoghi che abita, i gesti che compie, le relazioni che intreccia, i dispositivi che utilizza.
I dispositivi (cioè qualsiasi cosa abbia la capacità di determinare e orientare pensieri, gesti, comportamenti) con cui abbiamo a che fare quotidianamente ci inducono ad agire in un determinato modo, influiscono sul funzionamento del nostro cervello e ci trasformano. I dispositivi informatici, ad esempio, stanno cambiando radicalmente il nostro modo di vivere e il nostro modo di vivere il tempo, dal momento che non esiste   più una netta distinzione tra tempo del lavoro e tempo libero. Il mercato ci richiede di essere sempre connessi e visibili ed è una richiesta che è ormai diventata una nostra esigenza.
Siamo soggettività che si pensano libere e che in realtà rispondono "liberamente" all'applicazione dei poteri.
La pratica del selfie, in particolare, rivela molto del nostro tempo, di una fase storica in cui l'accessibilità e la condivisione sembrano diventate un "obbligo" e il confine tra pubblico e privato sfuma sempre più. 
Ma rivela soprattutto molto di noi, del nostro bisogno ossessivo di esserci - IO CI SONO! GUARDAMI - che alimenta il dubbio di non esserci, nell'attesa spasmodica di un like.


Anna Colaiacovo
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14 settembre 2018

"Il Dio dei leghisti": incontro con l'autore Augusto Cavadi su "Radio Oltre"

Filosofia per la vita - Radio Oltre

Da "Radio Oltre", la radio web dell'Istituto Francesco Cavazza di Bologna.

«Il ritorno di R.O.C. (Radio Oltre Cultura) ha visto il gradito ritorno in studio di un nostro amico: il filosofo Augusto Cavadi. Augusto, filosofo di strada, come ama definirsi, è su tutto un uomo coraggioso che con il pensiero affronta questioni delicate. Con lui abbiamo parlato del paradosso etico e teologico di chi è sia elettore della Lega e sia un cattolico, partendo dal suo saggio "Il Dio dei leghisti" edito da San Paolo. Qui il podcast».

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13 settembre 2018

Oggetti soggettivi. Pensare le cose

Filosofia per la vita - Oggetti soggettivi

Vi propongo un'interessante iniziativa: una riflessione sul nostro spazio quotidiano. Insieme ad alcuni amici filosofi, prendendo spunto proprio dalla "Filosofia dello spazio quotidiano" ideata da Stefano Zampieri, abbiamo scelto ciascuno un oggetto del nostro quotidiano e abbiamo provato a rifletterci sopra. Questo per dare valore a tutto quello che ci circonda e che troppo spesso non vediamo nemmeno più, sempre intenti a correre e affannarci tutto il tempo.
Per dare uno spazio e un pensiero ai tanti oggetti che fanno parte della nostra vita e per dimostrare che la filosofia fa parte di noi, tutti i giorni e dovunque noi siamo.
Da questo link è possibile scaricare gratuitamente questo primo LINK Book: "Oggetti soggettivi. Pensare le cose". 9 racconti filosofici a cura del gruppo di Link:

http://www.zonafilosofica.it/edizioni2.xhtml

Buona lettura!!!

Stefania Bernabeo
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10 settembre 2018

Cosa possono dare a noi gli immigrati extra-europei?

Filosofia per la vita - Immigrazione
"An Invitation" (Un Invito), dipinto di Favianna Rodriguez

Gli appelli alla scuola per una maggiore sensibilizzazione sulla tematica dell'immigrazione si sono intrecciati, in questi giorni, con nuovi episodi di violenza razzista. E anche in Sicilia: proprio in quell'isola che, da Mazzara del Vallo a Lampedusa, si era caratterizzata in Europa ormai da decenni come modello di accoglienza e di convivenza.
La gravità e la (relativa) novità di questi episodi, lungi dallo scoraggiare gli operatori scolastici (e direi gli educatori in generale), impongono una maggiore concentrazione degli sforzi.
Premessa generale di ogni indicazione più dettagliata è l'avvertenza di non cadere nella trappola dell'emergenzialità. Migrazioni e incontri/scontri di tradizioni culturali non sono fenomeni passeggeri (come miopi politiche poliziesche suppongono), bensì epocali. Dobbiamo attrezzarci per strategie di lungo periodo, senza esaltarci per piccoli progressi né sconfortarci per regressi momentanei. 
In un'ottica lungimirante mi pare che sia fondamentale operare almeno questi due passaggi. Il primo: passare dall'anonimato delle tematiche ai volti concreti. Quando sono invitato in scuole del Settentrione italiano a parlare di mafia e di antimafia, a parte i due o tre colleghi che organizzano la visita, trovo, quasi sempre, un clima di estraneità culturale e di diffidenza emotiva. Quando, però, mi espongo nella mia effettiva umanità, con le cicatrici che la mafia ha provocato nella mia carne di siciliano e anche con la fierezza di conterraneo di tanti eroi civili, di solito il clima cambia: la questione mafiosa perde i contorni astratti e diventa storia vissuta di uno come loro, con gli stessi dubbi e le stesse aspirazioni. Così è stato ogni volta che a scuola abbiamo invitato, con l'aiuto di "Amnesty International", un immigrato a incontrare i ragazzi. La questione si è trasformata in esperienza esistenziale: non date, numeri, normative bensì volti precisi, racconti autobiografici con nomi e cognomi. Allora la conoscenza smantella molti pregiudizi e fa cadere sipari ideologici costruiti su ignoranza atavica.
Ma l'incontro con un immigrato in carne e ossa (o anche con qualche ragazza importata dalle mafie africane per essere venduta sul mercato del sesso e aiutata a uscirne da associazioni come "Il pellegrino della terra" o altri comitati Anti-tratta) è solo un primo passo. Un secondo passo è più radicale: consiste nel capovolgere la prospettiva abituale. Chiedersi non più, o non soltanto, cosa possiamo fare noi europei per i profughi, ma anche cosa possono dare questi immigrati a noi. Apprendiamo dagli addetti ai lavori che i contributi previdenziali di tanti lavoratori stranieri salvano le pensioni di altrettanti lavoratori italiani e persino leghisti incalliti del Nord-Est ricordano a Salvini che gli immigrati sono una risorsa bracciantile per tante industrie in cerca di manodopera. Ma gli immigrati hanno da dare dal punto di vista, oltre che produttivo ed economico, antropologico e culturale. Anche se lo ignoriamo - o lo dimentichiamo facilmente - non pochi di loro hanno diplomi e lauree; conoscono più di una lingua; in ogni caso sono portatori di tradizioni mitiche e simboliche di estremo interesse. Perché non invitarli nelle nostre aule, nei nostri centri sociali, nelle nostre parrocchie a raccontarci le fiabe della loro infanzia, i proverbi dei loro anziani, le ricette della loro cucina, i farmaci naturali in uso nei loro villaggi? Perché non farci insegnare le loro danze e le loro musiche? Perché non farci spiegare come vivono la poligamia, la famiglia patriarcale, la dimensione della fraternità e della sororità estesa a intere tribù? Perché non farci aiutare a vedere l’Occidente con i loro occhi di vinti e colonizzati dagli occidentali? Avvertiamo, comprensibilmente, il desiderio di viaggiare, di andare in Africa equatoriale o in Estremo Oriente: ma perché, intanto, non fruiamo dell'Africa e dell'Asia che sono nelle nostre strade e che bussano alle nostre porte?
Non credo a nessuna ricetta miracolosa. Dunque neppure queste strategie pedagogiche eliminerebbero del tutto razzismo e xenofobia. Ma almeno potrebbero ridurne le manifestazioni e soprattutto modificare la coscienza di chi le mette in atto: ragazzi di Lercara Friddi o famiglie di Partinico alzerebbero i bastoni contro immigrati indifesi non più con senso di superiorità etnica, semmai per complesso di inferiorità intellettuale e morale.


Augusto Cavadi


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8 settembre 2018

Filosofia e spazio per la speranza in un'epoca disperata

Augusto Cavadi
Augusto Cavadi
Quaranta aspiranti filosofi in fila per due col resto di qualcosa. Ognuno dei quaranta partecipanti alla "XXI Settimana filosofica per non... filosofi", svoltasi a Lovere sul lago d'Iseo, ha tratto qualcosa dalle riflessioni sul tema "Lo spazio della speranza nell'epoca della disperazione".
Come sosteneva nel Medioevo San Tommaso d'Aquino, quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur che, grosso modo, corrisponderebbe in italiano a ognuno si porta a casa quanto entra nella sua sporta.
In realtà, come hanno osservato alcuni partecipanti, per la maggior parte  nessuno avverte di essere "disperato". Lo siamo forse "a nostra insaputa"? L'obiezione mi ha dato da pensare.
Forse nel dizionario italiano manca qualcosa che indichi non la perdita della speranza (la di-sperazione), bensì l'assenza radicale della stessa (una sorta di a-sperazione). E questa condizione esistenziale conserva una duplice valenza.
Da una parte, infatti, mi pare che – per riprendere Martin Heidegger – sia sintomo di quella povertà così grande da non consentire di avvertirsi poveri: la generazione immediatamente successiva alla mia non si sente orfana delle grandi narrazioni, dal cristianesimo al marxismo, perché non ha fatto in tempo ad aderirvi, in gioventù, con la passione incondizionata di alcuni di noi. Ma vorrei aggiungere immediatamente dall'altra parte questa assenza radicale di speranza si manifesta o, almeno, si può manifestare, in positivo come presenza al presente, come valorizzazione di ogni giornata, di ogni ora, di ogni momento. E' la grande lezione dei filosofi ellenistici occidentali e dei saggi buddhisti orientali.

Filosofia per la vita - Lovere

C'è un modo per conciliare l'attenzione al pur sfuggente presente e uno sguardo lungo sul futuro che non degeneri in illusione alienante? Ecco una mia seconda notazione: il pensatore marxista (eretico) Ernest Bloch sostiene di sì.
E' possibile, anzi doveroso, anzi inevitabile, coltivare una "utopia concreta": una progettualità orientata al "non ancora" che, però, si basi sull'analisi critica della situazione esistente, del "già". Egli, nella seconda metà del XX secolo, riteneva che tale "utopia concreta" fosse identificabile nel marxismo, a patto che lo si intendesse come sintesi in divenire della sua "corrente calda" (passione profetica risalente alla tradizione biblica) e della sua "corrente fredda" (teoria scientifica della società e della storia elaborata da Marx e Engels): alcuni di noi che non erano marxisti neppure nel Sessantotto, quando sembrava intellettualmente e eticamente obbligatorio esserlo, continuiamo a pensare che questa identificazione blochiana "Ubi Lenin, ibi Jerusalem" non colga nel segno.
Ma siamo, oggi come allora, convinti con Giorgio La Pira e molti altri, che il marxismo, fallimentare come terapia in quanto basato su un'antropologia errata, sia istruttivo – anzi, irrinunciabile – come diagnosi.
E non è l'ultima delle disgrazie dei nostri giorni che la Destra più potente e più ignorante della storia occidentale, intendo la Destra che governa alcune zone cruciali del pianeta come gli Stati Uniti d'America e che minaccia di installarsi senza contrappesi in Italia – abbia convinto la stragrande maggioranza della popolazione che marxismo sia sinonimo di totalitarismo regressivo.
Il riferimento a Marx mi suggerisce una terza notazione. Nel corso di un laboratorio serale, Andrea (il giovane filosofo che lo conduceva) ha chiesto di scrivere su un foglietto la risposta a due domande: "Cosa ti manca nella vita? Cosa stai facendo per ottenerlo?". Le risposte di cui si è avuta contezza (le leggevano a voce alta solo i partecipanti che lo decidevano) sono state tutte in chiave soggettivo-esistenziale: "mi manca la capacità di relazionarmi con gli altri", "mi manca la coerenza quotidiana con i miei princìpi etici", "mi manca una passione che mi coinvolga fortemente"...
Nessuna risposta ha riguardato l'ambito sociale-politico. Anche questo dato, a mio avviso, si presta a considerazioni di segno opposto. Di segno negativo: le speranze collettive sembrano tramontate per sempre o, per lo meno, essersi eclissate. Anche nei casi in cui assistiamo ancora con sdegno alle tragedie epocali – dai migranti che annegano a pochi chilometri dalle nostre spiagge, festosamente animate, alle bambine vendute e stuprate per pochi dollari in aree vastissime del pianeta – vi assistiamo con sorda rassegnazione: non vediamo organizzazioni partitiche, sindacali, religiose cui affidare la nostra impotenza individuale per trasformarla in energia collettiva.
Per la verità esistono alcune Organizzazioni non governative che lavorano con sufficiente efficacia, ma – a parte il fatto che per mantenere fiducia in esse è consigliabile non avvicinarsi troppo a osservarne le dinamiche interne e le inevitabili disfunzioni – danno l'impressione di agire solo posticipatamente e settorialmente; laddove si è convinti, più o meno lucidamente, che i drammi planetari attuali vadano affrontati preventivamente e, soprattutto, in un'ottica complessiva.
Tuttavia il tenore delle risposte alle domande di Andrea potrebbe conservare anche una valenza positiva: l'intuizione che le speranze al plurale nascono sempre, e si mantengono in vita, dalle speranze al singolare. Un'intuizione molto responsabilizzante che elide in radice ogni logica di delega: per dirla con Gandhi – che certamente non era un individualista apolitico – ognuno di noi deve impegnarsi ad essere per primo, nella propria sfera personale, il cambiamento che spera per il mondo.
La speranza dell'io non esclude la speranza del noi; anzi, se autentica e intensa, non può che contagiare centrifugamente gli altri. La speranza, che per sua essenza è un atteggiamento del soggetto, può però essere condivisa da altri soggetti sino a diventare, a macchia d'olio, la speranza se non di un popolo di una consistente maggioranza di umani.


Augusto Cavadi


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2 settembre 2018

La filosofia della speranza nell’epoca della disperazione

Augusto Cavadi
Augusto Cavadi
Alla fine del mio ultimo anno di liceo, 1968-69, scelsi la facoltà di filosofia perché pensavo fosse un modo di contribuire a cambiare il mondo. Per fortuna in quegli anni non era impossibile optare per l’insegnamento nei licei: e fu questo un primo ambito di servizio culturale e politico.
Ben presto, però, capii che fuori dalle aule scolastiche c’era molta gente desiderosa di pensare con la propria testa, e di confrontarsi spregiudicatamente con concittadini altrettanto desiderosi di mettersi in gioco: da qui una serie di iniziative che, grossolanamente e un po’ autoironicamente, definisco “filosofia per non... filosofi di professione”.
Mentre batto queste righe al computer sono a Lovere, sulla sponda bergamasca del delizioso lago d’Iseo, dove dal 21 al 27 agosto ho organizzato, col collega e amico di Roma, Elio Rindone, la “XXI Settimana Filosofica per non... filosofi”.

Filosofia per la vita - Lovere
Lovere (BG)

Come ogni anno, anche quest’anno la partecipazione, che cerchiamo di contenere entro quaranta persone, è varia per provenienza geografica, dalla Lombardia alla Sicilia, per età – dai 28 anni ai 96 –, per stato sociale: disoccupati e magistrati, impiegati e insegnanti di varie discipline.
Sin dall’incontro di apertura, in cui ognuno è stato invitato a presentarsi e comunicare brevemente le sue aspettative, si è registrato un diffuso interesse per la tematica prescelta: “lo spazio della speranza nell’epoca della disperazione”.
Per una tragica coincidenza la discussione è partita a pochi giorni dal disastro del ponte di Genova, a poche ore dall’esondazione del fiume nel Pollino e mentre una nave carica di immigrati vagava nel Mediterraneo in attesa che qualche governo si degnasse di accoglierla; più ampiamente in una fase storico-politica italiana e internazionale dove le velleità sovranistiche, un modo eufemistico di ribattezzare i disastrosi nazionalismi del XX secolo, sembrano minacciare quel poco di cooperazione che, faticosamente e non senza contraddizioni, si stava costruendo all’interno dell’Europa e fra Occidente e Oriente.
Ma la speranza, per quanto possa avere echi collettivi, nasce come atteggiamento squisitamente personale: ed è proprio come soggetti individuali che ci troviamo orfani delle “grandi narrazioni” – dalla tradizione ebraica e cristiana al comunismo marxista e alla socialdemocrazia – ed esposti al mistero di un universo sempre più grande di quanto riusciamo a percepirne.
Veramente, per dirla con Malraux, siamo la prima generazione dell’umanità che non sa che cosa ci sta a fare sulla terra. In questo contesto la filosofia non ha né ricette da prescrivere né, tanto meno, consolazioni da distribuire: ciò che può, e vuole, fare è capire la cause di questa situazione spirituale e dunque esaminare criticamente alcune ipotesi per uscirne senza precipitare dalla padella dello smarrimento alla brace dei fondamentalismi dogmatici.
In questa disamina saremo aiutati da tre colleghi che stimiamo molto: Francesco Dipalo, che, attraverso alcuni pensatori occidentali interrogherà il buddhismo, Orlando Franceschelli che, con tutta la vigilanza critica necessaria, darà voce alle ragioni di Nietzsche e Salvatore Fricano che racconterà alcune esistenze filosofiche in cui la speranza è stata incarnata prima che teorizzata.
Insieme alle dichiarazioni di interesse si sono registrate già al primo incontro propedeutico delle riserve di segno contrario: qualcuno ha sinceramente ammesso di essere stato indotto a tornare, più che dal tema specifico, dal desiderio di ritrovare il clima di cordialità amichevole, di autenticità etica e di libertà intellettuale respirato in edizioni precedenti. Qualche altro, Chiara, ha un pò spiazzato l’uditorio confessando di non condividere il titolo della Settimana: perché nell’epoca della disperazione? Se il titolo fosse realistico, lei sarebbe una “disperata a propria insaputa”. Qualche altro ancora ha obiettato che non sarebbe strano: parafrasando Heidegger, si può essere talmente disperati da non sapere neppure di esserlo.
Insomma, come in ogni contesto filosofico non inquinato da diplomazie accademiche, la gamma delle posizioni si è da subito delineata vasta e articolata. Abbiamo visto come si è avviata la riflessione, sapremo in pochi giorni come si concluderà.


Augusto Cavadi


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