• Augusto Cavadi •

Noi, i dormienti
“Non bisogna agire e parlare come dormienti”: così, secondo Marco Aurelio, avrebbe sentenziato nel VI secolo a.C. il saggio Eraclito. Che significa in questo contesto muoversi come sonnambuli? Poiché di Eraclito abbiamo solo frammenti sparsi, ogni risposta non può che essere ipotetica. Tuttavia, nel complesso, il significato mi pare abbastanza decifrabile. Infatti, in un altro frammento, leggiamo: “Per quelli che son desti c’è un unico e comune cosmo; ma ciascuno di quelli che dormono si volgono al proprio”.
Come è stato notato, questa considerazione ha “certamente prima di tutto un significato puramente psicologico: tutti quelli che sono desti accettano l’esistenza di una realtà fisica uguale per tutti ed in essa operano secondo criteri corrispondenti perché considerano uguale per tutti la sua struttura; nel sonno, invece, ciascuno vive in un illusorio mondo strettamente personale, la cui struttura è frutto della sua personalissima attività immaginativa.
Naturalmente, questa considerazione appare chiaramente, nel complesso dei frammenti, solo come il punto di partenza di una riflessione più profonda: i desti sono coloro che intendono il logos (...), i dormienti sono invece gli uomini della folla che rimangono legati all’individualità della conoscenza sensibile”¹.
Il Logos (o il Dao o l’Atman)
Ma cos’è questo logos il cui apprendimento separa i sapienti dagli ‘idioti’, cioè da coloro che si concentrano sul “proprio” (idion) e non accedono a un punto di vista complessivo, tendenzialmente universale? E’ la Trama intelligibile di tutto ciò che esiste, il Principio assoluto che lega (leghein) insieme la molteplicità degli opposti. L’intelligente, spiega altrove Eraclito, non è colui che ha appreso molte nozioni, ma chi – spezzando il guscio della propria individualità limitata – accede a “ciò che è a tutti comune” (fr. B 114), alla Legge divina che tiene insieme il cosmo. Senza leggi condivise una città crollerebbe, ma “tutte le leggi umane sono alimentate da quell’unica divina: infatti questa domina quanto vuole, basta a tutto e sopravanza” (ivi).
Molte affinità con il Logos greco di matrice eraclitea si possono rintracciare nel Dao (o, secondo una translitterazione oggi superata, Tao). Il termine è polisemico (“via, strada, principio, metodo, dire…”) e viene ritenuto dagli stessi taoisti “indefinibile”². Interessante notare che viene considerato “incommensurabile, infinito, immenso”, “principio trascendente e immanente dell’universo, anteriore alla creazione di questo, presente dovunque sotto molteplici aspetti secondo un processo spontaneo di continuo ritorno alle origini. Tutto deriva dal Dao e tutto ritorna ad esso”. Anche in questo scenario, saggio è colui che “si adegua a questo ciclo, si conforma al ritmo dell’universo senza contrastarlo, senza interferire, senza agire” (ivi).
Anche nella tradizione sapienziale induista fluisce, di generazione in generazione, l’aspirazione a qualcosa di molto simile al Logos greco e al Dao: “L’Atman cercavo, Brahma cercavo, e volevo smembrare e scortecciare il mio Io, per trovare nella sua sconosciuta profondità il nocciolo di tutte le cortecce, l’Atman, la vita, il divino, l’assoluto"³.
E’ difficile non ammettere inoltre l’affinità del logos eracliteo con il logos dei primi versetti del vangelo secondo Giovanni: “In principio il Logos era; il Logos era alla presenza di Dio, e il Logos era Dio. Esso era presente con Dio in principio. Per mezzo di lui ebbero origine tutte le cose e senza la sua presenza nessuna cosa ebbe origine. Ciò che aveva avuto origine in lui era vita, e questa era la luce degli uomini. La luce risplende nelle tenebre, perché le tenebre non la vinsero. (...) Esso era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo riconobbe” (I, 1- 8; 10). Qui – chiosava il cardinal Martini – il Verbo è “il logos delle cose, cioè la ragione ultima d’essere della realtà”⁴: nel mondo fisico e nella storia umana “tutto ha un significato nella sapienza ordinatrice di Dio”⁵, “tutto ha un senso, e questo senso è luminoso e vivificante”⁶.
Il Logos – inscindibilmente pensiero e parola e azione divini – è potenzialmente accessibile a ogni essere umano, ma pochi lo riconoscono (persino quando trapela nelle pieghe della storia dell’uomo mortale – “carne” – Gesù).
Risvegliarsi: in che senso?
Se non erro, dalla breve comparazione di queste differenti prospettive (greca, taoista, induista, cristiana, ma l’elenco sarebbe più lungo), si ricava che l’esperienza del risveglio è un’esperienza complessa e complessiva. Infatti è un’esperienza ‘intellettuale’ non nel senso riduttivo di ‘razionale’, bensì apicale di ‘intuitivo’: per quanto possa trarre giovamento dalla riflessione argomentativa, in se stessa la trascende. E, trascendendo – senza rinnegarlo – il piano della logica, coinvolge le profondità radicali del nostro io: quel ‘cuore’ che è la radice da cui si dipartono impulsi, passioni, sentimenti, volontà...
Ciò che mi preme sottolineare è che – se queste notazioni sono fondate – si può parlare del risveglio come di un’esperienza mistica: a patto che questo termine non si intenda come sinonimo di ‘psicologica’, ‘intimistica’, ‘soggettiva’. Il ‘risvegliato’ avrà pure avvertito il vantaggio di chiudere gli occhi, di liberare la mente dalle occupazioni e dalle preoccupazioni che l’affollano; ma, alla fin fine, per aprirli più ampiamente e per guardare dentro e fuori di sé con più penetrazione. Ci può aiutare il capitolo del citato Siddharta in cui H. Hesse evidenzia la necessità di bilanciare la necessaria cura dell’interiorità con l’altrettanto necessaria apertura all’oggettività cosmica: “Il risvegliato” intuisce che “l’uno e il divino” “vivevano nascosti” tanto nella varietà del mondo naturale quanto in Siddharta stesso poiché tali erano “appunto la natura e il senso del divino, d’esser qui giallo, là azzurro, là cielo, là bosco e qui Siddharta. Il senso e l’essenza delle cose non erano in qualche cosa oltre e dietro loro, ma nelle cose stesse, in tutto”⁷.
Il bivio radicale di noi contemporanei
A questa prospettiva millenaria, attestata in sapienze sparse sul pianeta, si è opposta radicalmente la prospettiva nichilistica (intendendo il termine nichilismo non in senso sociologico o politico, ma ontologico). Già nel mondo greco, secondo un’interpretazione legittima, Gorgia nega frontalmente che principio (arché) dell’intera realtà sia un elemento sensato, addirittura un Senso (Logos) fontale: “Nulla è, ma - anche se qualcosa fosse - sarebbe inintelligibile”.
Però è solo con la più recente Modernità occidentale che questa prospettiva nichilistica assume un profilo netto, inequivoco e letterariamente efficace. Già con Nietzsche: “la parodia più seria che io abbia mai sentita è questa: ‘In principio era l’Assurdo, e l’Assurdo era, la cospetto di Dio, e Dio (divino) era l’Assurdo’”⁸. Sartre s’incarica, mezzo secolo dopo, di esplicitare e tradurre in termini ancora più accessibili: “Vorrei fissare il carattere assoluto di quest’assurdità. Un gesto, un avvenimento nel piccolo mondo colorito degli uomini non è mai assurdo che relativamente: in rapporto alle circostanze che l’accompagnano. I discorsi di un pazzo, per esempio, sono assurdi in rapporto alla situazione in cui si trova, ma non in rapporto al suo delirio. Ma io, poco fa, ho fatto l’esperienza dell’assoluto: l’assoluto o l’assurdo”⁹.
Siamo dunque di fronte al bivio più radicale che, a mio avviso, si sia profilato nella storia delle civiltà: o l’Intero nasconde una filigrana di senso (che qualche volta riluce in un paesaggio, in un’opera d’arte, in un gesto etico, in un’intuizione intellettuale) oppure è intrinsecamente inintelligibile (la massa gelatinosa, viscida, insensata, nauseante di Sartre). L’opzione per l’una o l’altra prospettiva segna una differenza fra gli esseri umani che solo approssimativamente possiamo etichettare come differenza tra ‘credenti’ e ‘atei’: da una parte chi è convinto, anche senza averne consapevolezza, che ens et verum convertuntur (= chi dice ente dice intelligibilità potenziale, non necessariamente colta o coglibile dal genere umano); dall’altra chi è convinto che ens et absurdum convertuntur (e che dunque non ci sia alcun Logos, alcun Tao, alcun Atman, Senso da cercare ed eventualmente a cui affidarsi).
Sottolineo che questa divaricazione antropologica può solo approssimativamente sovrapporsi alla differenza fra ‘credenti’ e ‘atei’: infatti nella prima schiera troviamo persone atee, o agnostiche, che cercano di decifrare l’enigma della realtà animate da una “fede razionale” e indisponibili a qualificare ‘divino’ l’oggetto della loro ricerca; così come, nella seconda schiera, troviamo persone che frequentano con costanza le celebrazioni religiose proprio per esorcizzare la disperazione di chi – convinto dell’insensatezza ontologica universale – avverte la tentazione del suicidio, fisico o psichico.
Aggiungerei che si tratta di posizioni ideal-tipiche che difficilmente vengono incarnate con continuità da ognuno di noi: è più probabile, infatti, che alterniamo giornate di confidenza nella Trama dell’Intero a giornate di rassegnazione a recitare una parte insignificante in un teatro di mere parvenze. Ma l’opzione fra l’una e l’altra prospettiva non è una pura opzione umorale (o, nel migliore dei casi, sentimentale): è anche teoreticamente supportabile sulla base di argomentazioni razionali (o, per lo meno, ragionevoli). Questa fatica argomentativa va oltre le possibilità dell’uomo e della donna che, del tutto legittimamente e anzi lodevolmente, hanno scelto di dedicarsi a mestieri differenti dal filosofo ‘professionale’.
“Non bisogna agire e parlare come dormienti”: così, secondo Marco Aurelio, avrebbe sentenziato nel VI secolo a.C. il saggio Eraclito. Che significa in questo contesto muoversi come sonnambuli? Poiché di Eraclito abbiamo solo frammenti sparsi, ogni risposta non può che essere ipotetica. Tuttavia, nel complesso, il significato mi pare abbastanza decifrabile. Infatti, in un altro frammento, leggiamo: “Per quelli che son desti c’è un unico e comune cosmo; ma ciascuno di quelli che dormono si volgono al proprio”.
Come è stato notato, questa considerazione ha “certamente prima di tutto un significato puramente psicologico: tutti quelli che sono desti accettano l’esistenza di una realtà fisica uguale per tutti ed in essa operano secondo criteri corrispondenti perché considerano uguale per tutti la sua struttura; nel sonno, invece, ciascuno vive in un illusorio mondo strettamente personale, la cui struttura è frutto della sua personalissima attività immaginativa.
Naturalmente, questa considerazione appare chiaramente, nel complesso dei frammenti, solo come il punto di partenza di una riflessione più profonda: i desti sono coloro che intendono il logos (...), i dormienti sono invece gli uomini della folla che rimangono legati all’individualità della conoscenza sensibile”¹.
Il Logos (o il Dao o l’Atman)
Ma cos’è questo logos il cui apprendimento separa i sapienti dagli ‘idioti’, cioè da coloro che si concentrano sul “proprio” (idion) e non accedono a un punto di vista complessivo, tendenzialmente universale? E’ la Trama intelligibile di tutto ciò che esiste, il Principio assoluto che lega (leghein) insieme la molteplicità degli opposti. L’intelligente, spiega altrove Eraclito, non è colui che ha appreso molte nozioni, ma chi – spezzando il guscio della propria individualità limitata – accede a “ciò che è a tutti comune” (fr. B 114), alla Legge divina che tiene insieme il cosmo. Senza leggi condivise una città crollerebbe, ma “tutte le leggi umane sono alimentate da quell’unica divina: infatti questa domina quanto vuole, basta a tutto e sopravanza” (ivi).
Molte affinità con il Logos greco di matrice eraclitea si possono rintracciare nel Dao (o, secondo una translitterazione oggi superata, Tao). Il termine è polisemico (“via, strada, principio, metodo, dire…”) e viene ritenuto dagli stessi taoisti “indefinibile”². Interessante notare che viene considerato “incommensurabile, infinito, immenso”, “principio trascendente e immanente dell’universo, anteriore alla creazione di questo, presente dovunque sotto molteplici aspetti secondo un processo spontaneo di continuo ritorno alle origini. Tutto deriva dal Dao e tutto ritorna ad esso”. Anche in questo scenario, saggio è colui che “si adegua a questo ciclo, si conforma al ritmo dell’universo senza contrastarlo, senza interferire, senza agire” (ivi).
Anche nella tradizione sapienziale induista fluisce, di generazione in generazione, l’aspirazione a qualcosa di molto simile al Logos greco e al Dao: “L’Atman cercavo, Brahma cercavo, e volevo smembrare e scortecciare il mio Io, per trovare nella sua sconosciuta profondità il nocciolo di tutte le cortecce, l’Atman, la vita, il divino, l’assoluto"³.
E’ difficile non ammettere inoltre l’affinità del logos eracliteo con il logos dei primi versetti del vangelo secondo Giovanni: “In principio il Logos era; il Logos era alla presenza di Dio, e il Logos era Dio. Esso era presente con Dio in principio. Per mezzo di lui ebbero origine tutte le cose e senza la sua presenza nessuna cosa ebbe origine. Ciò che aveva avuto origine in lui era vita, e questa era la luce degli uomini. La luce risplende nelle tenebre, perché le tenebre non la vinsero. (...) Esso era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo riconobbe” (I, 1- 8; 10). Qui – chiosava il cardinal Martini – il Verbo è “il logos delle cose, cioè la ragione ultima d’essere della realtà”⁴: nel mondo fisico e nella storia umana “tutto ha un significato nella sapienza ordinatrice di Dio”⁵, “tutto ha un senso, e questo senso è luminoso e vivificante”⁶.
Il Logos – inscindibilmente pensiero e parola e azione divini – è potenzialmente accessibile a ogni essere umano, ma pochi lo riconoscono (persino quando trapela nelle pieghe della storia dell’uomo mortale – “carne” – Gesù).
Risvegliarsi: in che senso?
Se non erro, dalla breve comparazione di queste differenti prospettive (greca, taoista, induista, cristiana, ma l’elenco sarebbe più lungo), si ricava che l’esperienza del risveglio è un’esperienza complessa e complessiva. Infatti è un’esperienza ‘intellettuale’ non nel senso riduttivo di ‘razionale’, bensì apicale di ‘intuitivo’: per quanto possa trarre giovamento dalla riflessione argomentativa, in se stessa la trascende. E, trascendendo – senza rinnegarlo – il piano della logica, coinvolge le profondità radicali del nostro io: quel ‘cuore’ che è la radice da cui si dipartono impulsi, passioni, sentimenti, volontà...
Ciò che mi preme sottolineare è che – se queste notazioni sono fondate – si può parlare del risveglio come di un’esperienza mistica: a patto che questo termine non si intenda come sinonimo di ‘psicologica’, ‘intimistica’, ‘soggettiva’. Il ‘risvegliato’ avrà pure avvertito il vantaggio di chiudere gli occhi, di liberare la mente dalle occupazioni e dalle preoccupazioni che l’affollano; ma, alla fin fine, per aprirli più ampiamente e per guardare dentro e fuori di sé con più penetrazione. Ci può aiutare il capitolo del citato Siddharta in cui H. Hesse evidenzia la necessità di bilanciare la necessaria cura dell’interiorità con l’altrettanto necessaria apertura all’oggettività cosmica: “Il risvegliato” intuisce che “l’uno e il divino” “vivevano nascosti” tanto nella varietà del mondo naturale quanto in Siddharta stesso poiché tali erano “appunto la natura e il senso del divino, d’esser qui giallo, là azzurro, là cielo, là bosco e qui Siddharta. Il senso e l’essenza delle cose non erano in qualche cosa oltre e dietro loro, ma nelle cose stesse, in tutto”⁷.
Il bivio radicale di noi contemporanei
A questa prospettiva millenaria, attestata in sapienze sparse sul pianeta, si è opposta radicalmente la prospettiva nichilistica (intendendo il termine nichilismo non in senso sociologico o politico, ma ontologico). Già nel mondo greco, secondo un’interpretazione legittima, Gorgia nega frontalmente che principio (arché) dell’intera realtà sia un elemento sensato, addirittura un Senso (Logos) fontale: “Nulla è, ma - anche se qualcosa fosse - sarebbe inintelligibile”.
Però è solo con la più recente Modernità occidentale che questa prospettiva nichilistica assume un profilo netto, inequivoco e letterariamente efficace. Già con Nietzsche: “la parodia più seria che io abbia mai sentita è questa: ‘In principio era l’Assurdo, e l’Assurdo era, la cospetto di Dio, e Dio (divino) era l’Assurdo’”⁸. Sartre s’incarica, mezzo secolo dopo, di esplicitare e tradurre in termini ancora più accessibili: “Vorrei fissare il carattere assoluto di quest’assurdità. Un gesto, un avvenimento nel piccolo mondo colorito degli uomini non è mai assurdo che relativamente: in rapporto alle circostanze che l’accompagnano. I discorsi di un pazzo, per esempio, sono assurdi in rapporto alla situazione in cui si trova, ma non in rapporto al suo delirio. Ma io, poco fa, ho fatto l’esperienza dell’assoluto: l’assoluto o l’assurdo”⁹.
Siamo dunque di fronte al bivio più radicale che, a mio avviso, si sia profilato nella storia delle civiltà: o l’Intero nasconde una filigrana di senso (che qualche volta riluce in un paesaggio, in un’opera d’arte, in un gesto etico, in un’intuizione intellettuale) oppure è intrinsecamente inintelligibile (la massa gelatinosa, viscida, insensata, nauseante di Sartre). L’opzione per l’una o l’altra prospettiva segna una differenza fra gli esseri umani che solo approssimativamente possiamo etichettare come differenza tra ‘credenti’ e ‘atei’: da una parte chi è convinto, anche senza averne consapevolezza, che ens et verum convertuntur (= chi dice ente dice intelligibilità potenziale, non necessariamente colta o coglibile dal genere umano); dall’altra chi è convinto che ens et absurdum convertuntur (e che dunque non ci sia alcun Logos, alcun Tao, alcun Atman, Senso da cercare ed eventualmente a cui affidarsi).
Sottolineo che questa divaricazione antropologica può solo approssimativamente sovrapporsi alla differenza fra ‘credenti’ e ‘atei’: infatti nella prima schiera troviamo persone atee, o agnostiche, che cercano di decifrare l’enigma della realtà animate da una “fede razionale” e indisponibili a qualificare ‘divino’ l’oggetto della loro ricerca; così come, nella seconda schiera, troviamo persone che frequentano con costanza le celebrazioni religiose proprio per esorcizzare la disperazione di chi – convinto dell’insensatezza ontologica universale – avverte la tentazione del suicidio, fisico o psichico.
Aggiungerei che si tratta di posizioni ideal-tipiche che difficilmente vengono incarnate con continuità da ognuno di noi: è più probabile, infatti, che alterniamo giornate di confidenza nella Trama dell’Intero a giornate di rassegnazione a recitare una parte insignificante in un teatro di mere parvenze. Ma l’opzione fra l’una e l’altra prospettiva non è una pura opzione umorale (o, nel migliore dei casi, sentimentale): è anche teoreticamente supportabile sulla base di argomentazioni razionali (o, per lo meno, ragionevoli). Questa fatica argomentativa va oltre le possibilità dell’uomo e della donna che, del tutto legittimamente e anzi lodevolmente, hanno scelto di dedicarsi a mestieri differenti dal filosofo ‘professionale’.
Auguto Cavadi
(*) Pubblico qui il ‘succo’ di un intervento a braccio, il 12 ottobre 2023, presso la “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo, nel corso della presentazione (con il curatore Paolo Scquizzato e i co-autori Silvia Papi e Federico Battistutta) il volume di AA.VV., Del male, di Dio e del nostro amore. Ventuno dialoghi e un saggio, Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2023. | |||||
¹ | G. Gilardoni, commento al frammento B 89 in Eraclito, Tutti frammenti, Le Monnier, Firenze 1967, p. 46. | ||||
² | G. Bertuccioli, Il taoismo in AA.VV., Storia delle religioni. Cina – Estremo Oriente, La Biblioteca di Repubblica, Roma s.d., p. 446. | ||||
³ | H. Hesse, Siddharta, Adelphi, Milano 1975, p. 60. | ||||
⁴ | C. M. Martini, Il vangelo secondo Giovanni nell’esperienza degli esercizi spirituali, Borla, Roma 1981, p. 26. | ||||
⁵ | Ivi, p. 28. | ||||
⁶ | Ivi, pp. 28–29. | ||||
⁷ | H. Hesse, Siddharta, cit., p. 61.
⁸ | F. Nietzsche, Umano, troppo umano, Adelphi, Milano 1981, vol. II, p. 187 (con ritocchi ortografici). | ⁹ | J. P. Sartre, La nausea, Mondadori, Milano 1965, p. 184. | |
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