• Augusto Cavadi •
Ci sono atteggiamenti esistenziali che appartengono a noi umani in maniera costitutiva: secondo qualche importante filosofo, tra queste propensioni tipiche dell’umano ci sarebbe la cura.
Per dimostrarlo egli risale a un mito greco (che, come tutti i miti, non riferisce fatti di cronaca effettivamente accaduti, ma verità simboliche di valore perenne): la dea Cura impasta del fango appartenente alla Terra e plasma l’uomo (così chiamato perché viene dall’humus) e Giove gli infonde l’anima. Ma scoppia un litigio fra i tre dei: chi di loro sarà il proprietario dell’essere umano? La disputa è risolta con una sentenza salomonica di Saturno: alla morte dell’uomo, l’anima sarà di Giove; il corpo sarà restituito alla Terra; ma – durante il corso della vita – l’uomo apparterrà alla Cura.
Che significa essere caratterizzati strutturalmente dalla ‘cura’?
In una prima accezione la Cura è la radice di ogni angoscia. Nel dialetto siciliano – ma forse in altri dialetti si trovano espressioni simili – esortare qualcuno con “Un ti pigghiari cura!” significa “non aver timore”, “non inquietarti”. L’invito è affettuoso, ma poco efficace: la morte, la malattia, la sofferenza incombono sulla vita nostra, dei nostri cari, dell’umanità, degli altri animali. Possiamo compensare con altre considerazioni la nostra preoccupazione, ma sino a un certo punto: non azzerarla del tutto.
‘Cura’ è anche terapia in senso medico, sanitario: sia in relazione alle malattie fisiche che alle sofferenze psichiche (per altro reciprocamene imbricate). Questa seconda accezione è tanto inevitabile quanto bisognosa di essere arginata. E’ inevitabile perché le patologie non sono inventate, ma oggettive: Giovanni Jervis, collaboratore di Franco Basaglia, anni fa ha scritto un libro autocritico dal titolo enigmatico, Contro il relativismo. Si riferiva al pericolo di cadere nell’errore – in cui egli stesso dichiarava di esser caduto – di ritenere che i disturbi psichiatrici siano tali solo quando determinati comportamenti vengono etichettati così dalle convenzioni socio-culturali dell’epoca. (Chi sa cosa avrebbe detto oggi, se fosse stato vivo, di quei geni che, cattedratici di filologia romanza o lavoratori portuali, dichiarano che il Covid-19 è solo un’invenzione giornalistica al servizio delle grandi multinazionali del farmaco e delle oscure trame dei governi antidemocratici…). Certo c’è un margine di relatività anche nella storia della medicina, ma entro paletti abbastanza solidi: di Jacques Lacan si racconta che, irritato dalla relazione con un paziente, a un certo punto sia sbottato con un “Ma Lei è pazzo per davvero!”.
Pur se inevitabile, l’accezione medica del termine ‘cura’ va però maneggiata con prudenza. Da decenni, ormai, è in atto una medicalizzazione del disagio davvero esagerata: ci siamo abituati, senza tema di ridicolo, all’opinione che debba esserci una pillola o una fiala per ogni bambino particolarmente vivace o per ogni anziano rattristato dall’idea di dover morire... Anche se meno diffusa per ragioni economiche, la tendenza si è estesa dall’ambito farmacologico all’ambito delle psicoterapie: anziché imparare a convivere con le nostre problematiche esistenziali, chiediamo a un terapeuta della psiche di liberarcene.
Ecco perché è importante scoprire, o meglio: riscoprire, una terza accezione di ‘cura’: il farsi compagno solidale dell’altro, degli altri. Talora abbiamo bisogno di qualcuno che ci ‘curi’, altre volte – o forse: sempre! – abbiamo bisogno di qualcuno che si “prenda cura” di noi. Un amico, un insegnante, un prete, un consulente filosofico... non ha nessun titolo per curarci (e quando ci prova può fare persino danno); ma – a diversi livelli e da diverse angolazioni – ha titolo per prendersi cura di noi. Tutti noi incontriamo nella vita gente che ci vuole curare senza curarsi di noi e gente che si cura di noi senza volerci curare.
Per dimostrarlo egli risale a un mito greco (che, come tutti i miti, non riferisce fatti di cronaca effettivamente accaduti, ma verità simboliche di valore perenne): la dea Cura impasta del fango appartenente alla Terra e plasma l’uomo (così chiamato perché viene dall’humus) e Giove gli infonde l’anima. Ma scoppia un litigio fra i tre dei: chi di loro sarà il proprietario dell’essere umano? La disputa è risolta con una sentenza salomonica di Saturno: alla morte dell’uomo, l’anima sarà di Giove; il corpo sarà restituito alla Terra; ma – durante il corso della vita – l’uomo apparterrà alla Cura.
Che significa essere caratterizzati strutturalmente dalla ‘cura’?
In una prima accezione la Cura è la radice di ogni angoscia. Nel dialetto siciliano – ma forse in altri dialetti si trovano espressioni simili – esortare qualcuno con “Un ti pigghiari cura!” significa “non aver timore”, “non inquietarti”. L’invito è affettuoso, ma poco efficace: la morte, la malattia, la sofferenza incombono sulla vita nostra, dei nostri cari, dell’umanità, degli altri animali. Possiamo compensare con altre considerazioni la nostra preoccupazione, ma sino a un certo punto: non azzerarla del tutto.
‘Cura’ è anche terapia in senso medico, sanitario: sia in relazione alle malattie fisiche che alle sofferenze psichiche (per altro reciprocamene imbricate). Questa seconda accezione è tanto inevitabile quanto bisognosa di essere arginata. E’ inevitabile perché le patologie non sono inventate, ma oggettive: Giovanni Jervis, collaboratore di Franco Basaglia, anni fa ha scritto un libro autocritico dal titolo enigmatico, Contro il relativismo. Si riferiva al pericolo di cadere nell’errore – in cui egli stesso dichiarava di esser caduto – di ritenere che i disturbi psichiatrici siano tali solo quando determinati comportamenti vengono etichettati così dalle convenzioni socio-culturali dell’epoca. (Chi sa cosa avrebbe detto oggi, se fosse stato vivo, di quei geni che, cattedratici di filologia romanza o lavoratori portuali, dichiarano che il Covid-19 è solo un’invenzione giornalistica al servizio delle grandi multinazionali del farmaco e delle oscure trame dei governi antidemocratici…). Certo c’è un margine di relatività anche nella storia della medicina, ma entro paletti abbastanza solidi: di Jacques Lacan si racconta che, irritato dalla relazione con un paziente, a un certo punto sia sbottato con un “Ma Lei è pazzo per davvero!”.
Pur se inevitabile, l’accezione medica del termine ‘cura’ va però maneggiata con prudenza. Da decenni, ormai, è in atto una medicalizzazione del disagio davvero esagerata: ci siamo abituati, senza tema di ridicolo, all’opinione che debba esserci una pillola o una fiala per ogni bambino particolarmente vivace o per ogni anziano rattristato dall’idea di dover morire... Anche se meno diffusa per ragioni economiche, la tendenza si è estesa dall’ambito farmacologico all’ambito delle psicoterapie: anziché imparare a convivere con le nostre problematiche esistenziali, chiediamo a un terapeuta della psiche di liberarcene.
Ecco perché è importante scoprire, o meglio: riscoprire, una terza accezione di ‘cura’: il farsi compagno solidale dell’altro, degli altri. Talora abbiamo bisogno di qualcuno che ci ‘curi’, altre volte – o forse: sempre! – abbiamo bisogno di qualcuno che si “prenda cura” di noi. Un amico, un insegnante, un prete, un consulente filosofico... non ha nessun titolo per curarci (e quando ci prova può fare persino danno); ma – a diversi livelli e da diverse angolazioni – ha titolo per prendersi cura di noi. Tutti noi incontriamo nella vita gente che ci vuole curare senza curarsi di noi e gente che si cura di noi senza volerci curare.
Augusto Cavadi
Hai toccato un tema che mi interessa molto, Augusto. Credo che possa sollecitare molte riflessioni. Anch'io, in un articolo pubblicato sul blog www.solotablet.it sono partita dal mito:
RispondiEliminahttps://www.solotablet.it/blog/oltrepassare/cura-1
Grazie della segnalazione del tuo bell'intervento !
RispondiEliminaRiprendo dalla chiusura: «Tutti noi incontriamo nella vita gente che ci vuole curare senza curarsi di noi e gente che si cura di noi senza volerci curare». Quanta verità, carissimo Augusto: la vita mi ha portato a rendermene conto a mie e altrui spese, e trovare conferme nella tua saggezza mi conforta. Per il resto un gioiellino di sostanza, questo post! Ad avercene, di sintesi così ben confezionate... Profonde quanto appetibili: balsamiche, da gustare così come sono - ed è già tanto -, o da approfondire lasciandosi sedurre dal retrogusto, in base alle proprie inclinazioni e in tutta libertà. E pensare che c'è gente che si fa pagare caro, per dispensare molto meno di questo... Un abbraccio.
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