• Augusto Cavadi •
Uno dei più giovani e più stretti collaboratori di Enrico Fermi, nel gruppo di via Panisperna, fu Bruno Pontecorvo che, a 37 anni, nel 1950, decise improvvisamente di trapiantarsi con moglie e figli in Unione Sovietica: essendo diventato ideologicamente comunista, volle mettere la sua preparazione scientifica in campo nucleare a servizio di una delle due superpotenze in “guerra fredda”.
Nei decenni successivi, egli rimase molto deluso dal socialismo ‘reale’ ed ebbe modo di esprimere seri dubbi sulla scelta giovanile, ma la sua vicenda personale è istruttiva perché ci fa vedere, in un caso concreto, l’intreccio inestricabile fra tre attività che – considerate astrattamente – sarebbero distinte: la scienza, la tecnica e la politica.
Bruno Pontecorvo (Marina di Pisa, 22/08/1913 – Dubna, 24/09/1993), fisico italiano |
Nei decenni successivi, egli rimase molto deluso dal socialismo ‘reale’ ed ebbe modo di esprimere seri dubbi sulla scelta giovanile, ma la sua vicenda personale è istruttiva perché ci fa vedere, in un caso concreto, l’intreccio inestricabile fra tre attività che – considerate astrattamente – sarebbero distinte: la scienza, la tecnica e la politica.
La scienza è un’attività “teoretica”: il tentativo, metodico e sociale, suscitato dalla “meraviglia”, di assecondare quel desiderio naturale di sapere che, secondo Aristotele, accomuna tutti gli esseri umani. Essa fiorisce solo in totale libertà.
La tecnica è l’insieme dei metodi e degli strumenti mediante i quali le acquisizioni scientifiche vengono ‘applicate’ alla trasformazione della natura: essa non è sovrana come la scienza, ma subordinata – di diritto e di fatto - alla politica.
La tecnica è l’insieme dei metodi e degli strumenti mediante i quali le acquisizioni scientifiche vengono ‘applicate’ alla trasformazione della natura: essa non è sovrana come la scienza, ma subordinata – di diritto e di fatto - alla politica.
Pontecorvo lo sa bene: lascia l’Occidente capitalistico e si trasferisce in URSS perché ha più fiducia in una politica social-comunista che in una politica liberal-democratica.
Il potere politico, cui spetta il diritto di regolamentare la tecnica, si auto-interpreta solitamente come assoluto: ma è davvero così? O esso – più o meno consapevolmente – dipende da una certa visione filosofica dell’uomo, della società, dello Stato, della morale, della religione etc.? La questione è cruciale. Se la politica è l’orizzonte ultimo dell’umanità, ad essa spetta stabilire i fini e i limiti della produzione tecnica (per restare nell’esempio di Pontecorvo, gli scopi cui indirizzare le applicazioni delle teorie sui nuclei atomici) senza dover rendere conto a nessuna istanza più alta. Se invece essa, a sua volta, necessita di criteri etici, non può fare a meno di memoria storica, di confronto pubblico, di fantasia progettuale: in una parola, di saggezza.
Come si potrebbe attuare in concreto questa illuminazione filosofica della prassi politica?
E’ celebre la ricetta di Platone: o i politici si decidano a diventare filosofi o i filosofi accettino di rinunziare alla proprie quiete contemplativa per diventare politici. Se adottata letteralmente, sarebbe - a mio avviso - una ricetta disastrosa: abbiamo visto, anche in occasione della recente pandemia e della guerra in corso fra Russia e Ucraina, che da filosofi prestigiosi provengono allarmi opportuni e inviti preziosi, ma intrecciati a teorie cervellotiche e proposte operative contrarie al buon senso più elementare. La ricetta platonica va, a mio avviso, interpretata come una metafora che – decodificata e attualizzata – potrebbe tradursi grosso modo come invito a una democratizzazione della pratica filosofica. Sappiamo che in Italia la filosofia è sperimentata prevalentemente come studio della “storia della filosofia” riservato alle minoranze di cittadini che frequentano corsi liceali. Nulla da eccepire: la storia della filosofia è una disciplina interessante ed è comprensibile che, comunque, non possa essere insegnata in tutti gli indirizzi scolastici.
Ma la filosofia non è solo, né soprattutto, storia della filosofia (altrui): è anche, e principalmente, una pratica personale. E’ passione per la conoscenza, capacità di riflessione, arte di argomentare con logica, esercizio di ascolto critico, gusto del confronto dialogico, tensione verso la coerenza etica. In questa accezione poliedrica la filosofia – meglio: il filosofare – è un modo di vivere e di rapportarsi al mondo che non necessariamente s’impara a scuola o all’università. Ci sono insegnanti di storia della filosofia che non filosofano quasi mai e persone del tutto ignare della storia della filosofia che filosofano spesso. Ed è di questo filosofare-in-pratica che ha bisogno la politica per svolgere il suo ruolo di pilota della tecnica e architetta della socialità: di cui hanno bisogno, in concreto, elettori ed eletti, governati e governanti.
Come moltiplicare le occasioni di contagio dell’esprit philosophique? Dove sperimentare simili modalità democratiche di filosofia ‘praticata’? Quali filosofi troveranno la motivazione per dedicarsi a con-filosofare socraticamente con uomini e donne della strada, senza mire egemoniche sulle coscienze e senza attesa di ricompense economiche allettanti?
Il potere politico, cui spetta il diritto di regolamentare la tecnica, si auto-interpreta solitamente come assoluto: ma è davvero così? O esso – più o meno consapevolmente – dipende da una certa visione filosofica dell’uomo, della società, dello Stato, della morale, della religione etc.? La questione è cruciale. Se la politica è l’orizzonte ultimo dell’umanità, ad essa spetta stabilire i fini e i limiti della produzione tecnica (per restare nell’esempio di Pontecorvo, gli scopi cui indirizzare le applicazioni delle teorie sui nuclei atomici) senza dover rendere conto a nessuna istanza più alta. Se invece essa, a sua volta, necessita di criteri etici, non può fare a meno di memoria storica, di confronto pubblico, di fantasia progettuale: in una parola, di saggezza.
Come si potrebbe attuare in concreto questa illuminazione filosofica della prassi politica?
E’ celebre la ricetta di Platone: o i politici si decidano a diventare filosofi o i filosofi accettino di rinunziare alla proprie quiete contemplativa per diventare politici. Se adottata letteralmente, sarebbe - a mio avviso - una ricetta disastrosa: abbiamo visto, anche in occasione della recente pandemia e della guerra in corso fra Russia e Ucraina, che da filosofi prestigiosi provengono allarmi opportuni e inviti preziosi, ma intrecciati a teorie cervellotiche e proposte operative contrarie al buon senso più elementare. La ricetta platonica va, a mio avviso, interpretata come una metafora che – decodificata e attualizzata – potrebbe tradursi grosso modo come invito a una democratizzazione della pratica filosofica. Sappiamo che in Italia la filosofia è sperimentata prevalentemente come studio della “storia della filosofia” riservato alle minoranze di cittadini che frequentano corsi liceali. Nulla da eccepire: la storia della filosofia è una disciplina interessante ed è comprensibile che, comunque, non possa essere insegnata in tutti gli indirizzi scolastici.
Ma la filosofia non è solo, né soprattutto, storia della filosofia (altrui): è anche, e principalmente, una pratica personale. E’ passione per la conoscenza, capacità di riflessione, arte di argomentare con logica, esercizio di ascolto critico, gusto del confronto dialogico, tensione verso la coerenza etica. In questa accezione poliedrica la filosofia – meglio: il filosofare – è un modo di vivere e di rapportarsi al mondo che non necessariamente s’impara a scuola o all’università. Ci sono insegnanti di storia della filosofia che non filosofano quasi mai e persone del tutto ignare della storia della filosofia che filosofano spesso. Ed è di questo filosofare-in-pratica che ha bisogno la politica per svolgere il suo ruolo di pilota della tecnica e architetta della socialità: di cui hanno bisogno, in concreto, elettori ed eletti, governati e governanti.
Come moltiplicare le occasioni di contagio dell’esprit philosophique? Dove sperimentare simili modalità democratiche di filosofia ‘praticata’? Quali filosofi troveranno la motivazione per dedicarsi a con-filosofare socraticamente con uomini e donne della strada, senza mire egemoniche sulle coscienze e senza attesa di ricompense economiche allettanti?
Augusto Cavadi
Riflessioni assai utili che andrebbero ampiamente condivise e discusse. Grazie.
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