• Augusto Cavadi •

Non ricordo con esattezza quando ebbi per la prima volta l’idea di una “passeggiata filosofica”, ma da molti anni mi è capitato di sperimentarla, ovviamente con esiti più o meno convincenti a seconda della qualità del coinvolgimento – silenzioso o esplicito – dei presenti. Di che si tratta? E in che senso può considerarsi una pratica “filosofica”?
La struttura
Si tratta di un’attività in sé elementare che rivela una delle capacità più naturali dell’umanità: poter camminare. Per quanto spostarsi nello spazio sia uno degli atti più spontanei che l’uomo compia, è pregno di significato simbolico. Rivela la nostra condizione ontologica di nomadi. Come ricorda Todorov, noi mortali non abbiamo radici come gli alberi che nascono e muoiono nello stesso terreno, ma gambe per muoverci: per attraversare i confini fisici e artificiali e per ‘meticciarci’.
Questa pratica consiste, dunque, in una passeggiata di circa 50-60 minuti scandita da tre brevi soste (due intermedie e una conclusiva). All’inizio il filosofo-conduttore suggerisce una breve riflessione su una tematica preferibilmente legata al contesto geo-storico in cui ci si trova (un lago, una montagna, una costa sul mare, una città affollata…). Quindi, man mano che si procede, ciascun partecipante vi riflette: ognuno per sé, ma accanto agli altri. Durante le tre brevi soste, chi vorrà potrà regalare agli altri qualche frutto della propria riflessione.
La struttura della passeggiata è dunque di una semplicità disarmante; tuttavia, se la si vive intensamente, manifesta almeno tre valenze. Essa è un’esperienza di ascolto silenzioso, di meditazione personale e di scambio di idee: di queste tre attività insieme. Ed è proprio grazie all’intreccio (qualcuno direbbe dall’embricazione reciproca) che ciascuna riceve un plus di valore dalle altre. Affinché riesca, almeno discretamente, è necessario che i partecipanti rispettino una sola regola: la sistole e la diastole. Intendo, in senso metaforico, in-spirazione (trattenere la lingua nei minuti di silenzio) e e-spirazione (condividere la parola nei momenti di interscambio).
Valenze filosofiche
In che senso una passeggiata può qualificarsi ‘filosofica’? Ovviamente la risposta dipende dalla nostra idea di filosofia. Se con questa parola indichiamo un processo complesso, e complessivo, che – coinvolgendoci esistenzialmente – include apertura alla novità, rielaborazione mentale, dialogo intersoggettivo... la passeggiata può costituire, per la sua stessa struttura trivalente – un’ottima occasione per filosofare. Vediamolo un po’ più analiticamente.
a) La dimensione dell’ascolto
Innanzitutto è un esercizio di ascolto. Il pensiero autentico non è mai autogenerativo, neppure quando si presenta come tale: è sempre ‘risposta’ a un evento, a una voce, a un testo, a un volto, a una minaccia, a un invito, a un panorama... E’, etimologicamente, ‘respons-abile’. Le poche parole che il filosofo-conduttore pronunzia all’inizio della passeggiata dovrebbero costituire questo stimolo originario, questo appello, questa pro-vocazione: nulla di didattico né tanto meno di esotico. Piuttosto un sommesso accenno, un delicato fare cenno-a qualche aspetto del mondo o della vita che i presenti (normalmente non-filosofi di professione) hanno sotto gli occhi, o nel bagaglio della propria storia personale, ma su cui non si sono riflessivamente soffermati abbastanza. Accennare – forse anche con l’aiuto di qualche poeta – a un dato esperienziale affinché, chi voglia, lo possa ri-guardare (guardare di nuovo) con uno sguardo diverso dal solito.¹
L’ascolto dell’input iniziale avviene nel silenzio e, in silenzio, il gruppo inizia il cammino. Nelle nostre esistenze, in genere, ascoltiamo e pronunziamo molte parole: abbiamo anche il tempo di meditarle, di ruminarle, di metabolizzarle? Perfino in occasioni intellettualmente elevate rischiamo di essere sommersi da eccesso di stimoli. In uno dei suoi libri Romano Guardini ricorda che, al secondo giorno di un convegno filosofico-teologico cui egli stesso partecipava (in un paese europeo), due ospiti giapponesi fecero le valigie e si congedarono, educatamente, in anticipo: “Dieci ore al giorno di conferenze e di dibattiti, senza pause di silenzio meditativo, sono troppe per noi. Non le reggiamo”. Siamo così poco abituati a tacere che, nel corso della passeggiata, avvertiremo forte la tentazione di sussurrare all’orecchio del vicino un’impressione, un commento: forse proprio all’orecchio di una stessa persona a cui non abbiamo rivolto la parola durante tutte le ore precedenti e a cui non ci capiterà di rivolgerla nelle ore successive. Eppure la saggezza è anche capacità di tacere.
b) La dimensione creativa ‘originale’
Ascoltare, tacere. Fare vuoto, farsi spazio accogliente insomma: ma in funzione di una produzione di idee. Se nel corso di una pratica non zampillano intuizioni, non si operano associazioni di idee, non si traggono deduzioni logiche... è improprio usare l’aggettivo qualificativo ‘filosofica’. Si potrebbe dire che una pratica è filosofica nella misura in cui promuove pensieri originali. Ma a patto di precisare subito in che senso. Infatti può capitare che filosofando si producano concetti ‘originali’ nel senso di inediti, inauditi: l’asserto fichtiano dell’auto-posizione dell’Io mi sembrerebbe uno di questi. Negli anni della mia formazione universitaria il docente più brillante e più noto in Facoltà, Armando Plebe, sosteneva – a voce e anche in qualche pubblicazione – che una teoria è tanto più filosofica quanto più nuova, spiazzante, imprevista. Un’immagine a lui cara per rappresentare il ruolo sociale del filosofo era il clown capace di stupire il pubblico con espressioni – verbali e gestuali – ogni volta inaspettate. E’ davvero così? Personalmente ritenevo, e ritengo, di no. Ricordo con simpatia un pranzo, durante un convegno, con Gustavo Bontadini, noto in quegli stessi anni per la sua ripresa di Parmenide e per essere stato docente di Emanuele Severino: tra un bicchiere di vino e l’altro rimarcava – con l’arguzia che lo contraddistingueva – la differenza in filosofia fra una “scoperta” e una “trovata”. Ci sono tesi ‘filosofiche’ che mettono in crisi il pubblico perché – destrutturando il ‘noto’ – evidenziano il ‘vero’; altre, molto meno ‘filosofiche’, stupiscono senza illuminare la realtà: sono più delle ‘trovate’ che delle ‘scoperte’. Qualora, invece, un ragazzo di sedici anni ‘veda’, per la prima volta in vita sua, la differenza kantiana fra imperativi ipotetici e imperativo categorico sta accadendo un evento originale in senso autenticamente filosofico: paragonabile all’originalità caratterizzante la pagina in cui Kant ha espresso quella differenza (che, mi pare, nessun altro aveva intuito nella storia occidentale prima di lui). Nelle pratiche filosofiche – consulenza inclusa – dobbiamo auspicare l’elaborazione di idee originali in un’accezione assai vicina a quanto scriveva Pierre Hadot. Dopo aver citato alcune delle Réflexions et maximes di Luc de Clapiers de Vauvenargues (“Ogni pensiero è nuovo quando l’autore lo esprime in una maniera che è sua propria”; “Ci sono molte cose che sappiamo male e che è molto bene ridire”; “Un libro nuovo e davvero originale sarebbe quello che facesse amare vecchie verità”), così continua: “Mi auguro, in questo senso, di essere stato «davvero nuovo e davvero originale», cercando di fare amare vecchie verità. Vecchie verità... poiché ci sono verità di cui le generazioni umane non giungeranno mai a esaurire il senso; non che siano difficili da capirsi, al contrario sono estremamente semplici, spesso hanno persino l’apparenza della banalità; ma, precisamente per comprenderne il senso occorre viverle, occorre rifarne incessantemente l’esperienza: ogni epoca deve riprendere questo compito, imparare a leggere e a rileggere queste «vecchie verità»”.²
c) La dimensione della condivisione sommessa
Il silenzio, la rielaborazione personale: una terza valenza è il dono delle proprie riflessioni. Non è obbligatorio intervenire e, chi lo decida, deve provare ad astenersi da ogni intenzione proselitistica e – cosa ancor più ardua – da ogni moto esibizionistico. L’atteggiamento di fondo dovrebbe essere lo spirito di semplicità: io supero la ritrosia, dovuta a timidezza o a paura di essere giudicato inadeguato, e ti regalo ciò che mi si è configurato nella mente. Se ti va, lo raccogli; se non ti va, lo lasci cadere senza obiezioni né polemiche. Non è tecnicamente un dialogo filosofico perché non è previsto il ping pong, la tesi e l’antitesi, l’affermazione e la negazione; tuttavia è uno scambio in cui – senza la stringente morsa della dialettica – ciascuno può, nell’ascolto silenzioso di vari punti di vista, mettere le proprie convinzioni alla prova di voci ‘altre’.
Alla fine della passeggiata è possibile prevedere uno spazio per comunicare al gruppo l’interpretazione dell’esperienza che si è vissuta. Come quando Nino confidò di aver provato la sensazione di partecipare a “una processione laica: un momento di spiritualità intensa che non ho mai sperimentato neppure quando, da ragazzino, frequentavo ancora le chiese...”.
La verifica
Ma quando una passeggiata – come ogni altra pratica filosofica – può dirsi “riuscita”? Quali obiettivi deve raggiungere? Con quale metro va misurata la sua efficacia? Va precisato subito: non ha obiettivi ‘utili’ prefissati. Ha senso solo in un orizzonte di gratuità, di assenza di risultati ‘tangibili’.
E’ gratuita già in quanto passeggiata: “Gli uomini che hanno potere dovrebbero scendere dalle auto blindate e iniziare a passeggiare. Una passeggiata vuol dire essere restituiti alla strada e alla nudità casuale delle persone, guardare gli alberi, i palazzi o il mare, inseguire pensieri spesso splendidamente banali. Passeggiare vuol dire avere un cane per amico, oppure un amico libero come un cane, con cui parlare di tutto, uno che ti ascolta e ha voglia di perdere tempo con te. […] Passeggiare è giocare dolcemente con la giornata, decidere che ne puoi perdere un pezzo perché lo vuoi guadagnare. […] Passeggiare vuol dire infiltrare un po’ di vacanza in ogni giornata, lasciare aperta una fessura nel quotidiano, sapendo che la sorpresa può entrare anche dalle porte strette. […] Passeggiare è un’arte povera, un far niente pieno di cose”.³

Se già il passeggiare non implica uno scopo preciso, neppure gli scambi tra i passeggiatori ne devono veicolare. Non è facile intervenire in un cerchio senza intenzioni tattiche o strategiche premeditate. Di solito parliamo per convincere della validità di una nostra idea politica o religiosa, della bontà di un prodotto o di un servizio che vogliamo vendere; parliamo per difenderci o per attaccare, per esaltare il nostro ego o per umiliare l’ego altrui; talora per convertire o per istruire o per curare, in qualche modo per prestare ‘aiuto’ (ciò che in buona fede riteniamo tale) a chi sappiamo, o supponiamo, ne abbia bisogno. Molti, se non proprio tutti, questi ‘usi’ della parola sono legittimi, anzi indispensabili. Ma non esauriscono la gamma delle possibilità antropologiche. Oltre che denotativo e connotativo, oltre che performativo, il linguaggio di cui siamo capaci è evocativo. Siamo dotati anche di parola che emana spontaneamente ex abundantia cordis, dalla sovrabbondanza dell’animo: la parola in-utile, non-funzionale. La parola in qualche misura poetica che trascende il piano delle contrattazioni, dei progetti operativi: rivolta a tutti (in generale) e a nessuno (in particolare), tranne forse che a sé stessi. Abbiamo perduto il gusto di questa comunicazione ‘bella’ perché, direbbe Kant, “senza scopo”: una comunicazione di cui godere (fruire) senza preoccuparsi degli effetti utili. Ma è solo quando ciò accade che sperimentiamo la saggezza innata del grillo, della cicala, dell’usignolo... e del gelsomino che emana profumo per null’altro motivo che il piacere di emanarlo.
L’assenza di finalità utilitaristiche nella comunicazione filosofico-meditativa non esclude che, di fatto e per così dire preterintenzionalmente, essa possa risultare a posteriori un arricchimento della nostra soggettività. Come si esprime, sulle orme di Karl Gustav Jung, Eugen Drewermann, ci sono “melodie, ci sono parole, ci sono immagini, ci sono canti che, come assopiti, sono soltanto in noi, nella nostra anima, ed esprimerli e cantarli costituisce il compito centrale della nostra vita. Solamente per questo scopo siamo stati creati; e nessun altro compito è più importante che scoprire quale ricchezza c’è in noi. Solo allora il nostro cuore diventa tutto, solo allora la nostra anima si dilata, solo allora il nostro pensiero si fa forte”.⁴
Nulla di strano, dunque, che si esca da una passeggiata filosofica comunitaria più allegri o più istruiti o più determinati a realizzare i propri desideri o più sollevati dalle pene di quella fase della vita o... Ma questi e altri risultati saranno effetti collaterali (desiderabili) di un’esperienza in sé non strumentalizzabile: filosofare in libertà.
La struttura
Si tratta di un’attività in sé elementare che rivela una delle capacità più naturali dell’umanità: poter camminare. Per quanto spostarsi nello spazio sia uno degli atti più spontanei che l’uomo compia, è pregno di significato simbolico. Rivela la nostra condizione ontologica di nomadi. Come ricorda Todorov, noi mortali non abbiamo radici come gli alberi che nascono e muoiono nello stesso terreno, ma gambe per muoverci: per attraversare i confini fisici e artificiali e per ‘meticciarci’.
Questa pratica consiste, dunque, in una passeggiata di circa 50-60 minuti scandita da tre brevi soste (due intermedie e una conclusiva). All’inizio il filosofo-conduttore suggerisce una breve riflessione su una tematica preferibilmente legata al contesto geo-storico in cui ci si trova (un lago, una montagna, una costa sul mare, una città affollata…). Quindi, man mano che si procede, ciascun partecipante vi riflette: ognuno per sé, ma accanto agli altri. Durante le tre brevi soste, chi vorrà potrà regalare agli altri qualche frutto della propria riflessione.
La struttura della passeggiata è dunque di una semplicità disarmante; tuttavia, se la si vive intensamente, manifesta almeno tre valenze. Essa è un’esperienza di ascolto silenzioso, di meditazione personale e di scambio di idee: di queste tre attività insieme. Ed è proprio grazie all’intreccio (qualcuno direbbe dall’embricazione reciproca) che ciascuna riceve un plus di valore dalle altre. Affinché riesca, almeno discretamente, è necessario che i partecipanti rispettino una sola regola: la sistole e la diastole. Intendo, in senso metaforico, in-spirazione (trattenere la lingua nei minuti di silenzio) e e-spirazione (condividere la parola nei momenti di interscambio).
Valenze filosofiche
In che senso una passeggiata può qualificarsi ‘filosofica’? Ovviamente la risposta dipende dalla nostra idea di filosofia. Se con questa parola indichiamo un processo complesso, e complessivo, che – coinvolgendoci esistenzialmente – include apertura alla novità, rielaborazione mentale, dialogo intersoggettivo... la passeggiata può costituire, per la sua stessa struttura trivalente – un’ottima occasione per filosofare. Vediamolo un po’ più analiticamente.
a) La dimensione dell’ascolto
Innanzitutto è un esercizio di ascolto. Il pensiero autentico non è mai autogenerativo, neppure quando si presenta come tale: è sempre ‘risposta’ a un evento, a una voce, a un testo, a un volto, a una minaccia, a un invito, a un panorama... E’, etimologicamente, ‘respons-abile’. Le poche parole che il filosofo-conduttore pronunzia all’inizio della passeggiata dovrebbero costituire questo stimolo originario, questo appello, questa pro-vocazione: nulla di didattico né tanto meno di esotico. Piuttosto un sommesso accenno, un delicato fare cenno-a qualche aspetto del mondo o della vita che i presenti (normalmente non-filosofi di professione) hanno sotto gli occhi, o nel bagaglio della propria storia personale, ma su cui non si sono riflessivamente soffermati abbastanza. Accennare – forse anche con l’aiuto di qualche poeta – a un dato esperienziale affinché, chi voglia, lo possa ri-guardare (guardare di nuovo) con uno sguardo diverso dal solito.¹
L’ascolto dell’input iniziale avviene nel silenzio e, in silenzio, il gruppo inizia il cammino. Nelle nostre esistenze, in genere, ascoltiamo e pronunziamo molte parole: abbiamo anche il tempo di meditarle, di ruminarle, di metabolizzarle? Perfino in occasioni intellettualmente elevate rischiamo di essere sommersi da eccesso di stimoli. In uno dei suoi libri Romano Guardini ricorda che, al secondo giorno di un convegno filosofico-teologico cui egli stesso partecipava (in un paese europeo), due ospiti giapponesi fecero le valigie e si congedarono, educatamente, in anticipo: “Dieci ore al giorno di conferenze e di dibattiti, senza pause di silenzio meditativo, sono troppe per noi. Non le reggiamo”. Siamo così poco abituati a tacere che, nel corso della passeggiata, avvertiremo forte la tentazione di sussurrare all’orecchio del vicino un’impressione, un commento: forse proprio all’orecchio di una stessa persona a cui non abbiamo rivolto la parola durante tutte le ore precedenti e a cui non ci capiterà di rivolgerla nelle ore successive. Eppure la saggezza è anche capacità di tacere.
b) La dimensione creativa ‘originale’
Ascoltare, tacere. Fare vuoto, farsi spazio accogliente insomma: ma in funzione di una produzione di idee. Se nel corso di una pratica non zampillano intuizioni, non si operano associazioni di idee, non si traggono deduzioni logiche... è improprio usare l’aggettivo qualificativo ‘filosofica’. Si potrebbe dire che una pratica è filosofica nella misura in cui promuove pensieri originali. Ma a patto di precisare subito in che senso. Infatti può capitare che filosofando si producano concetti ‘originali’ nel senso di inediti, inauditi: l’asserto fichtiano dell’auto-posizione dell’Io mi sembrerebbe uno di questi. Negli anni della mia formazione universitaria il docente più brillante e più noto in Facoltà, Armando Plebe, sosteneva – a voce e anche in qualche pubblicazione – che una teoria è tanto più filosofica quanto più nuova, spiazzante, imprevista. Un’immagine a lui cara per rappresentare il ruolo sociale del filosofo era il clown capace di stupire il pubblico con espressioni – verbali e gestuali – ogni volta inaspettate. E’ davvero così? Personalmente ritenevo, e ritengo, di no. Ricordo con simpatia un pranzo, durante un convegno, con Gustavo Bontadini, noto in quegli stessi anni per la sua ripresa di Parmenide e per essere stato docente di Emanuele Severino: tra un bicchiere di vino e l’altro rimarcava – con l’arguzia che lo contraddistingueva – la differenza in filosofia fra una “scoperta” e una “trovata”. Ci sono tesi ‘filosofiche’ che mettono in crisi il pubblico perché – destrutturando il ‘noto’ – evidenziano il ‘vero’; altre, molto meno ‘filosofiche’, stupiscono senza illuminare la realtà: sono più delle ‘trovate’ che delle ‘scoperte’. Qualora, invece, un ragazzo di sedici anni ‘veda’, per la prima volta in vita sua, la differenza kantiana fra imperativi ipotetici e imperativo categorico sta accadendo un evento originale in senso autenticamente filosofico: paragonabile all’originalità caratterizzante la pagina in cui Kant ha espresso quella differenza (che, mi pare, nessun altro aveva intuito nella storia occidentale prima di lui). Nelle pratiche filosofiche – consulenza inclusa – dobbiamo auspicare l’elaborazione di idee originali in un’accezione assai vicina a quanto scriveva Pierre Hadot. Dopo aver citato alcune delle Réflexions et maximes di Luc de Clapiers de Vauvenargues (“Ogni pensiero è nuovo quando l’autore lo esprime in una maniera che è sua propria”; “Ci sono molte cose che sappiamo male e che è molto bene ridire”; “Un libro nuovo e davvero originale sarebbe quello che facesse amare vecchie verità”), così continua: “Mi auguro, in questo senso, di essere stato «davvero nuovo e davvero originale», cercando di fare amare vecchie verità. Vecchie verità... poiché ci sono verità di cui le generazioni umane non giungeranno mai a esaurire il senso; non che siano difficili da capirsi, al contrario sono estremamente semplici, spesso hanno persino l’apparenza della banalità; ma, precisamente per comprenderne il senso occorre viverle, occorre rifarne incessantemente l’esperienza: ogni epoca deve riprendere questo compito, imparare a leggere e a rileggere queste «vecchie verità»”.²
c) La dimensione della condivisione sommessa
Il silenzio, la rielaborazione personale: una terza valenza è il dono delle proprie riflessioni. Non è obbligatorio intervenire e, chi lo decida, deve provare ad astenersi da ogni intenzione proselitistica e – cosa ancor più ardua – da ogni moto esibizionistico. L’atteggiamento di fondo dovrebbe essere lo spirito di semplicità: io supero la ritrosia, dovuta a timidezza o a paura di essere giudicato inadeguato, e ti regalo ciò che mi si è configurato nella mente. Se ti va, lo raccogli; se non ti va, lo lasci cadere senza obiezioni né polemiche. Non è tecnicamente un dialogo filosofico perché non è previsto il ping pong, la tesi e l’antitesi, l’affermazione e la negazione; tuttavia è uno scambio in cui – senza la stringente morsa della dialettica – ciascuno può, nell’ascolto silenzioso di vari punti di vista, mettere le proprie convinzioni alla prova di voci ‘altre’.
Alla fine della passeggiata è possibile prevedere uno spazio per comunicare al gruppo l’interpretazione dell’esperienza che si è vissuta. Come quando Nino confidò di aver provato la sensazione di partecipare a “una processione laica: un momento di spiritualità intensa che non ho mai sperimentato neppure quando, da ragazzino, frequentavo ancora le chiese...”.
La verifica
Ma quando una passeggiata – come ogni altra pratica filosofica – può dirsi “riuscita”? Quali obiettivi deve raggiungere? Con quale metro va misurata la sua efficacia? Va precisato subito: non ha obiettivi ‘utili’ prefissati. Ha senso solo in un orizzonte di gratuità, di assenza di risultati ‘tangibili’.
E’ gratuita già in quanto passeggiata: “Gli uomini che hanno potere dovrebbero scendere dalle auto blindate e iniziare a passeggiare. Una passeggiata vuol dire essere restituiti alla strada e alla nudità casuale delle persone, guardare gli alberi, i palazzi o il mare, inseguire pensieri spesso splendidamente banali. Passeggiare vuol dire avere un cane per amico, oppure un amico libero come un cane, con cui parlare di tutto, uno che ti ascolta e ha voglia di perdere tempo con te. […] Passeggiare è giocare dolcemente con la giornata, decidere che ne puoi perdere un pezzo perché lo vuoi guadagnare. […] Passeggiare vuol dire infiltrare un po’ di vacanza in ogni giornata, lasciare aperta una fessura nel quotidiano, sapendo che la sorpresa può entrare anche dalle porte strette. […] Passeggiare è un’arte povera, un far niente pieno di cose”.³

Se già il passeggiare non implica uno scopo preciso, neppure gli scambi tra i passeggiatori ne devono veicolare. Non è facile intervenire in un cerchio senza intenzioni tattiche o strategiche premeditate. Di solito parliamo per convincere della validità di una nostra idea politica o religiosa, della bontà di un prodotto o di un servizio che vogliamo vendere; parliamo per difenderci o per attaccare, per esaltare il nostro ego o per umiliare l’ego altrui; talora per convertire o per istruire o per curare, in qualche modo per prestare ‘aiuto’ (ciò che in buona fede riteniamo tale) a chi sappiamo, o supponiamo, ne abbia bisogno. Molti, se non proprio tutti, questi ‘usi’ della parola sono legittimi, anzi indispensabili. Ma non esauriscono la gamma delle possibilità antropologiche. Oltre che denotativo e connotativo, oltre che performativo, il linguaggio di cui siamo capaci è evocativo. Siamo dotati anche di parola che emana spontaneamente ex abundantia cordis, dalla sovrabbondanza dell’animo: la parola in-utile, non-funzionale. La parola in qualche misura poetica che trascende il piano delle contrattazioni, dei progetti operativi: rivolta a tutti (in generale) e a nessuno (in particolare), tranne forse che a sé stessi. Abbiamo perduto il gusto di questa comunicazione ‘bella’ perché, direbbe Kant, “senza scopo”: una comunicazione di cui godere (fruire) senza preoccuparsi degli effetti utili. Ma è solo quando ciò accade che sperimentiamo la saggezza innata del grillo, della cicala, dell’usignolo... e del gelsomino che emana profumo per null’altro motivo che il piacere di emanarlo.
L’assenza di finalità utilitaristiche nella comunicazione filosofico-meditativa non esclude che, di fatto e per così dire preterintenzionalmente, essa possa risultare a posteriori un arricchimento della nostra soggettività. Come si esprime, sulle orme di Karl Gustav Jung, Eugen Drewermann, ci sono “melodie, ci sono parole, ci sono immagini, ci sono canti che, come assopiti, sono soltanto in noi, nella nostra anima, ed esprimerli e cantarli costituisce il compito centrale della nostra vita. Solamente per questo scopo siamo stati creati; e nessun altro compito è più importante che scoprire quale ricchezza c’è in noi. Solo allora il nostro cuore diventa tutto, solo allora la nostra anima si dilata, solo allora il nostro pensiero si fa forte”.⁴
Nulla di strano, dunque, che si esca da una passeggiata filosofica comunitaria più allegri o più istruiti o più determinati a realizzare i propri desideri o più sollevati dalle pene di quella fase della vita o... Ma questi e altri risultati saranno effetti collaterali (desiderabili) di un’esperienza in sé non strumentalizzabile: filosofare in libertà.
Augusto Cavadi
¹ | Alcune di queste riflessioni-spunto le ho raccolte in un libretto, nato da una breve vacanza filosofica in barca a vela organizzata da Agnese Previtali: Il mare, com’è profondo il mare..., Diogene Multimedia, Bologna 2017. Per ragioni intuibili, alcuni di questi testi mi sono riusciti particolarmente adatti nell’introdurre le passeggiate filosofiche nel corso delle varie edizioni del “Festival della filosofia d’a-mare” da me organizzate sia nell’isola di Favignana (2014, 2015) che nel comune di Castellammare del Golfo (2016, 2017, 2018, 2019). |
² | P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino 1988, p. 68. Cfr. l’incastonamento delle righe di Hadot che ho presentato nel capitolo Libertà dall’ossessione dell’originalità nel mio La filosofia come terapia dell’anima. Linee essenziali per una spiritualità filosofica, Diogene Multimedia, Bologna 2019, pp. 131-135. |
³ | F. Cassano, Modernizzare stanca. Perdere tempo, guadagnare, Laterza, Bari–Roma 2001, pp. 149-150. |
⁴ | E. Drewermann, Parole per una terra da scoprire, a cura di K. Walter, Queriniana, Brescia 1993, ed. or. 1990, p. 80. |
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