• Augusto Cavadi •
Come ogni anno, anche in questo agosto alcune decine di persone si sono date appuntamento in montagna (è stata la volta di Camigliatello, sulla Sila) per regalarsi una settimana di “filosofia per non... filosofi” di professione.
La domanda di fondo è stata suggerita dalle drammatiche vicende di questi mesi: l’umanità è un branco di mostri o una famiglia solidale?
Che per lo più, statisticamente, regni la violenza esplicita o silenziosamente inesorabile (fra gli Stati, tra le fasce socio-economiche, all’interno dei nuclei familiari, nei confronti dei viventi senzienti ridotti a meri oggetti da consumare) è un dato di fatto oggettivo. E, se si vuole essere realistici, bisogna prenderne atto.
Nei primi tre incontri Elio Rindone non ha avuto difficoltà a evocare alcune delle tantissime pagine (dai Greci a Nietzsche e Schmitt) che, per dirla con Hobbes, descrivono la vita umana come “solitaria, misera, ripugnante, brutale e breve”.
Ma, per essere realistici sino in fondo, bisogna non fermarsi alla situazione fenomenica, scavare al di là delle apparenze, saper vedere ciò che l’essere umano — in perenne evoluzione — è in potenza.
Che cosa potremmo diventare? Guardiamo alcune figure storiche — effettivamente esistite — in cui l’umanità è come fiorita, mostrando profeticamente ciò che in tutti gli altri soggetti giace nascosto: Lao Tze e Buddha, Socrate e Confucio, Gesù e Maometto, Leonardo da Vinci e Giordano Bruno, Gandhi e Martin Luther King, Etty Hillesum e Simone Weil, Margherita Hack e Rita Levi Montalcini...
Personalità, come scriveva H. Bergson, che “nulla domandano, e tuttavia ottengono. Non hanno bisogno di esortare; non hanno che da esistere: la loro esistenza è un richiamo”. Al contatto — diretto o mediato dalle testimonianze storiche — con questo genere di figure, anche la nostra esistenza si dilaterà, sperimentando spontaneamente un “amore” esteso “agli animali, alle piante, a tutta la natura” (non è un caso che molte di queste persone sono state vegetariane).
Affinché ciò avvenga è indispensabile che, sin dai primissimi anni di vita, la nostra struttura neuro-cerebrale venga sollecitata cognitivamente e affettivamente: senza relazioni il sé non si costituisce.
Come ha illustrato in questi giorni, con termini semplici ma suggestivi, Mario Mulé, la genetica è inscindibile dall’epigenetica: lo stadio evolutivo attuale è effetto e causa di un potenziale di condivisione e di collaborazione fra i soggetti della nostra specie.
Come conferma la teoria ‘polivagale’, abbiamo necessità di attivare tanto sistemi di allarme e di difesa quanto di fiducia e di cooperazione. Proprio la rilevanza dell’ambiente familiare e, poi, scolastico nella formazione della personalità impone la massima attenzione sui metodi educativi che, consapevolmente o meno, vengono adottati.
Come ha evidenziato nei suoi interventi agli incontri di queste giornate calabresi Adriana Saieva, una “pedagogia nera” (formula di Katharina Rutschky, ripresa in Svizzera da Alice Miller e in Italia da Paolo Perticari, per indicare una pedagogia repressiva, scoraggiante, umiliante) non può che creare maggioranze sottomesse a un capo dispotico (vedi il consenso a dittatori come Hitler o Stalin) o individui intolleranti verso qualsiasi forma di ordinamento, di regole. Se la rilevanza del contesto immediato in cui ognuno di noi nasce e si sviluppa è difficilmente esagerabile, almeno altrettanto decisivo risulta l’influenza del contesto socio-politico e istituzionale. Una società internazionale equa, in cui libertà e giustizia si compenetrino vicendevolmente, è ardua da realizzare: ma la si può, almeno, disegnare concettualmente affinché costituisca un modello realisticamente utopico verso cui approssimarsi?
La risposta di Giacomo Vaiarelli nelle sue relazioni è stata affermativa. Immanuel Kant nel suo Per la pace perpetua e, ai nostri giorni, John Rawls, nel suo Il diritto dei popoli, hanno dimostrato che si possono individuare dei principi razionali e ragionevoli che si potrebbero adottare come pilastri di una confederazione internazionale di Stati: “I popoli sono liberi e indipendenti e la loro libertà e indipendenza devono essere rispettate dagli altri popoli; sono tenuti all’osservanza dei trattati e degli impegni presi; sono eguali e prendono parte agli accordi che li vincolano; sono tenuti all’osservanza del dovere di non intervento; hanno diritto all’autodifesa ma non hanno alcun diritto a scatenare una guerra per ragioni diverse dall’autodifesa; sono tenuti ad onorare i diritti umani e all’osservanza di certe specifiche restrizioni nella condotta in guerra”. Il pensatore statunitense (scomparso nel 2002) non è così ingenuo da ignorare le difficoltà effettive che l’umanità dovrà affrontare per arrivare a questo “patto”. Ma sa che, senza una méta potenzialmente condivisibile da tutti i pensanti, il cammino non si inizierà neppure. Con la prospettiva, già paventata da Kant, che se dobbiamo vivere perennemente o in guerra o a rischio di guerre, non si capisce che senso abbia per l’umanità abitare la Terra.
La domanda di fondo è stata suggerita dalle drammatiche vicende di questi mesi: l’umanità è un branco di mostri o una famiglia solidale?
Che per lo più, statisticamente, regni la violenza esplicita o silenziosamente inesorabile (fra gli Stati, tra le fasce socio-economiche, all’interno dei nuclei familiari, nei confronti dei viventi senzienti ridotti a meri oggetti da consumare) è un dato di fatto oggettivo. E, se si vuole essere realistici, bisogna prenderne atto.
Vacanze Filosofiche a Camigliatello (CS), agosto 2022. Foto Salvo Porrovecchio |
Nei primi tre incontri Elio Rindone non ha avuto difficoltà a evocare alcune delle tantissime pagine (dai Greci a Nietzsche e Schmitt) che, per dirla con Hobbes, descrivono la vita umana come “solitaria, misera, ripugnante, brutale e breve”.
Ma, per essere realistici sino in fondo, bisogna non fermarsi alla situazione fenomenica, scavare al di là delle apparenze, saper vedere ciò che l’essere umano — in perenne evoluzione — è in potenza.
Che cosa potremmo diventare? Guardiamo alcune figure storiche — effettivamente esistite — in cui l’umanità è come fiorita, mostrando profeticamente ciò che in tutti gli altri soggetti giace nascosto: Lao Tze e Buddha, Socrate e Confucio, Gesù e Maometto, Leonardo da Vinci e Giordano Bruno, Gandhi e Martin Luther King, Etty Hillesum e Simone Weil, Margherita Hack e Rita Levi Montalcini...
Personalità, come scriveva H. Bergson, che “nulla domandano, e tuttavia ottengono. Non hanno bisogno di esortare; non hanno che da esistere: la loro esistenza è un richiamo”. Al contatto — diretto o mediato dalle testimonianze storiche — con questo genere di figure, anche la nostra esistenza si dilaterà, sperimentando spontaneamente un “amore” esteso “agli animali, alle piante, a tutta la natura” (non è un caso che molte di queste persone sono state vegetariane).
Affinché ciò avvenga è indispensabile che, sin dai primissimi anni di vita, la nostra struttura neuro-cerebrale venga sollecitata cognitivamente e affettivamente: senza relazioni il sé non si costituisce.
Come ha illustrato in questi giorni, con termini semplici ma suggestivi, Mario Mulé, la genetica è inscindibile dall’epigenetica: lo stadio evolutivo attuale è effetto e causa di un potenziale di condivisione e di collaborazione fra i soggetti della nostra specie.
Come conferma la teoria ‘polivagale’, abbiamo necessità di attivare tanto sistemi di allarme e di difesa quanto di fiducia e di cooperazione. Proprio la rilevanza dell’ambiente familiare e, poi, scolastico nella formazione della personalità impone la massima attenzione sui metodi educativi che, consapevolmente o meno, vengono adottati.
Come ha evidenziato nei suoi interventi agli incontri di queste giornate calabresi Adriana Saieva, una “pedagogia nera” (formula di Katharina Rutschky, ripresa in Svizzera da Alice Miller e in Italia da Paolo Perticari, per indicare una pedagogia repressiva, scoraggiante, umiliante) non può che creare maggioranze sottomesse a un capo dispotico (vedi il consenso a dittatori come Hitler o Stalin) o individui intolleranti verso qualsiasi forma di ordinamento, di regole. Se la rilevanza del contesto immediato in cui ognuno di noi nasce e si sviluppa è difficilmente esagerabile, almeno altrettanto decisivo risulta l’influenza del contesto socio-politico e istituzionale. Una società internazionale equa, in cui libertà e giustizia si compenetrino vicendevolmente, è ardua da realizzare: ma la si può, almeno, disegnare concettualmente affinché costituisca un modello realisticamente utopico verso cui approssimarsi?
La risposta di Giacomo Vaiarelli nelle sue relazioni è stata affermativa. Immanuel Kant nel suo Per la pace perpetua e, ai nostri giorni, John Rawls, nel suo Il diritto dei popoli, hanno dimostrato che si possono individuare dei principi razionali e ragionevoli che si potrebbero adottare come pilastri di una confederazione internazionale di Stati: “I popoli sono liberi e indipendenti e la loro libertà e indipendenza devono essere rispettate dagli altri popoli; sono tenuti all’osservanza dei trattati e degli impegni presi; sono eguali e prendono parte agli accordi che li vincolano; sono tenuti all’osservanza del dovere di non intervento; hanno diritto all’autodifesa ma non hanno alcun diritto a scatenare una guerra per ragioni diverse dall’autodifesa; sono tenuti ad onorare i diritti umani e all’osservanza di certe specifiche restrizioni nella condotta in guerra”. Il pensatore statunitense (scomparso nel 2002) non è così ingenuo da ignorare le difficoltà effettive che l’umanità dovrà affrontare per arrivare a questo “patto”. Ma sa che, senza una méta potenzialmente condivisibile da tutti i pensanti, il cammino non si inizierà neppure. Con la prospettiva, già paventata da Kant, che se dobbiamo vivere perennemente o in guerra o a rischio di guerre, non si capisce che senso abbia per l’umanità abitare la Terra.
Augusto Cavadi
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