• Augusto Cavadi •
Alla saggezza-nel-deliberare (come si potrebbe ribattezzare la prudentia della tradizione classica occidentale) spetta distinguere il vero dal falso, l’apparente dal reale, l’opportuno dall’inopportuno. Ma, soprattutto, il giusto dall’ingiusto.
Si tratta di un compito tanto necessario quanto arduo. Sin da Platone – i cui dialoghi ‘socratici’ non per caso sono stati definiti ‘aporetici’ – una questione più è grave, meno è agevole da dirimere. Solo gli animi grezzi avanzano di certezza in certezza, senza esitare. Le menti più fini procedono, con Abelardo, fra un sic e un non o, con un Tommaso d’Aquino, fra un videtur quod e un sed contra.
Alcune delle più clamorose tragedie mondiali degli ultimi anni (delle più clamorose, non necessariamente delle più terribili) hanno provocato la drastica contrapposizione di schieramenti intellettuali sul modo di reagire alla pandemia del Covid-19 o di posizionarsi rispetto al conflitto fra Russia e Ucraina. In alcuni casi il dogmatismo è stato frutto d’ignoranza dei dati o di interessi ideologico-politici inconfessati; ma in altri ha agito, più o meno consapevolmente, l’angoscia davanti all’incertezza oggettiva.
Quando sono in gioco questioni strettamente individuali (ma esistono davvero questioni strettamente individuali?) la precipitazione nell’assumere una determinata prospettiva, senza darsi margini di revisione, è un errore che paga chi lo perpetra. Ma quando sono in gioco questioni sociali – intendo che riguardano due soggetti, o una famiglia, o una città, o una nazione, o l’umanità – si entra nell’ambito della “giustizia”: errori di valutazione ‘prudenziale’ comportano la ferita, o addirittura la distruzione, di inalienabili diritti altrui.
Chi non si acceca davanti alla complessità delle problematiche, e ha in misura variabile la responsabilità delle vite altrui oltre che della propria, non può decidere con sicumera, ma neppure può ignorare che in molti bivi della storia il non decidere è una forma di decisione (e raramente la migliore). Perciò deve, da una parte, prospettarsi tutte le ipotesi praticabili – senza escluderne a priori nessuna -, dall’altra adottare la più probabilmente giusta o la meno probabilmente ingiusta. Nei regimi dittatoriali o più o meno autoritari i governanti sono soggetti a minori travagli morali: non devono cercare di individuare, di mettere a fuoco, di scoprire ciò che è giusto perché o – in sistemi teocratici – hanno già dettata dall’Alto la Norma assoluta oppure – in sistemi immanentistici – sono precisamente essi stessi, con le loro decisioni inappellabili, a instaurare la giustizia e a differenziarla dall’ingiustizia.
Neanche in un’ottica di democrazia anarchica c’è spazio per dilemmi morali: si presuppone che ogni individuo decida da sé ciò che è giusto ma, non essendo egoista e anzi essendo convintamente sollecito dell’uguale diritto altrui, la sua decisione non potrà rivelarsi ingiusta da nessun punto di vista.
Si tratta di un compito tanto necessario quanto arduo. Sin da Platone – i cui dialoghi ‘socratici’ non per caso sono stati definiti ‘aporetici’ – una questione più è grave, meno è agevole da dirimere. Solo gli animi grezzi avanzano di certezza in certezza, senza esitare. Le menti più fini procedono, con Abelardo, fra un sic e un non o, con un Tommaso d’Aquino, fra un videtur quod e un sed contra.
Alcune delle più clamorose tragedie mondiali degli ultimi anni (delle più clamorose, non necessariamente delle più terribili) hanno provocato la drastica contrapposizione di schieramenti intellettuali sul modo di reagire alla pandemia del Covid-19 o di posizionarsi rispetto al conflitto fra Russia e Ucraina. In alcuni casi il dogmatismo è stato frutto d’ignoranza dei dati o di interessi ideologico-politici inconfessati; ma in altri ha agito, più o meno consapevolmente, l’angoscia davanti all’incertezza oggettiva.
Quando sono in gioco questioni strettamente individuali (ma esistono davvero questioni strettamente individuali?) la precipitazione nell’assumere una determinata prospettiva, senza darsi margini di revisione, è un errore che paga chi lo perpetra. Ma quando sono in gioco questioni sociali – intendo che riguardano due soggetti, o una famiglia, o una città, o una nazione, o l’umanità – si entra nell’ambito della “giustizia”: errori di valutazione ‘prudenziale’ comportano la ferita, o addirittura la distruzione, di inalienabili diritti altrui.
Chi non si acceca davanti alla complessità delle problematiche, e ha in misura variabile la responsabilità delle vite altrui oltre che della propria, non può decidere con sicumera, ma neppure può ignorare che in molti bivi della storia il non decidere è una forma di decisione (e raramente la migliore). Perciò deve, da una parte, prospettarsi tutte le ipotesi praticabili – senza escluderne a priori nessuna -, dall’altra adottare la più probabilmente giusta o la meno probabilmente ingiusta. Nei regimi dittatoriali o più o meno autoritari i governanti sono soggetti a minori travagli morali: non devono cercare di individuare, di mettere a fuoco, di scoprire ciò che è giusto perché o – in sistemi teocratici – hanno già dettata dall’Alto la Norma assoluta oppure – in sistemi immanentistici – sono precisamente essi stessi, con le loro decisioni inappellabili, a instaurare la giustizia e a differenziarla dall’ingiustizia.
Neanche in un’ottica di democrazia anarchica c’è spazio per dilemmi morali: si presuppone che ogni individuo decida da sé ciò che è giusto ma, non essendo egoista e anzi essendo convintamente sollecito dell’uguale diritto altrui, la sua decisione non potrà rivelarsi ingiusta da nessun punto di vista.
Invece, nei regimi liberal/social/democratici, in cui le decisioni vengono adottate di norma né mediante meccanismi assembleari né all’unanimità, ma attraverso la faticosa mediazione di organi rappresentativi (sia legislativi che amministrativi), la determinazione di ciò che è giusto in sé – o, almeno, di ciò che risulta giusto in relazione alle condizioni date storicamente – si rivela assai più problematica. Occorre infatti arrivare a definire – con il minimo di interferenze utilitaristiche e strumentali – ciò che la maggioranza ritiene giusto; salvaguardare i diritti della minoranza a non adeguarsi alle decisioni della maggioranza; circoscrivere quest’ultimo diritto alla “disobbedienza civile” in maniera che possa fruire del più ampio spazio di agibilità, senza travalicare quei confini il cui oltrepassamento vanificherebbe, di fatto, gli esiti dei meccanismi democratici (instaurando una sorta di dittatura della minoranza). Troppo complicato, no?
E’ per questo che le democrazie liberal/social/democratiche sono fragili, esposte al tiro incrociato di autoritarismi e anarchismi, tanto più insidiosi quanto più animati da sincera volontà di giustizia. La Democrazia é davvero, secondo la nota espressione di Winston Churchill, “la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre forme che si sono sperimentate finora”.
E’ per questo che le democrazie liberal/social/democratiche sono fragili, esposte al tiro incrociato di autoritarismi e anarchismi, tanto più insidiosi quanto più animati da sincera volontà di giustizia. La Democrazia é davvero, secondo la nota espressione di Winston Churchill, “la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre forme che si sono sperimentate finora”.
Augusto Cavadi
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