
Se anche un professore ordinario di diritto costituzionale presso la Scuola di Giurisprudenza di Padova e noto costituzionalista come Mario Bertolissi afferma che la democrazia è in crisi; che gli Stati non decidono; che le decisioni importanti sono prese altrove, cioè non nei luoghi deputati alle decisioni legislative; che il momento è drammatico e che le leggi non valgono più, c’è di che riflettere. Non solo su quali siano i “luoghi” del potere odierno, ma sulla legittimazione stessa del potere. Bertolissi aggiunge che il modello della razionalità manageriale ha invaso anche la giurisprudenza, e che tecnici e Linee guida valgono più di decreti, giudici e tribunali; afferma inoltre che i valori fondativi della Repubblica: la pace e il contrasto dei nazionalismi, e la sovranità popolare sono annullati oggigiorno quando il cittadino è defraudato del suo ruolo sociale al momento del voto e della partecipazione.“Il cittadino meno rompe meglio è. La politica non vuole la partecipazione”. C’è, inoltre, un problema di linguaggio, ha accennato il giurista: siamo sommersi da una terminologia “innovativa” che ci spinge a credere che il futuro sia un’invenzione linguistica; siamo bombardati da slogan, titoli enfatici, parole urlate e passaparola “virali” aggiungerei. Pensiamo a termini come petaloso, performativo, resiliente, stabilità, governance, googlare, attimino, assolutamente, spending review. Bertolissi lo afferma a chiare lettere: in Italia non sono mai stati usati gli strumenti di partecipazione anche solo per “pesare” la volontà dei cittadini, ricordandoci che questa abitudine è invece prassi consolidata nella “solita” Svizzera. Del resto in Italia il voto alle donne è una conquista del 1946, le Regioni sono entrate in vigore nel 1970 e la legge sulla trasparenza amministrativa è del 1990, per citare alcuni esempi. Di contro la recente proposta referendaria all’Art. 71 proponeva di triplicare la soglia delle firme per la proposta legislativa popolare da 50mila a 150mila (cassata dalla vittoria del no); proposta che peraltro non è vincolante per il Parlamento, come non sono stati vincolanti i risultati referendari del passato.
E’ una questione di cultura che manca in Italia, cultura della partecipazione - dice il giurista. E cultura è educazione, aggiungerei, infatti: i laureati in Italia sono l’11,6%, solo il 37,4% legge libri, il 21% visita musei o eventi culturali, sono il 26% i giovani considerati Neet, "Not (engaged) in Education, Employment or Training": non lavorano, non studiano, non usufruiscono di percorsi di formazione (Istat 2015). Una gran parte degli italiani sono incapaci di comprendere o persino leggere una frase che non sia un periodo semplice (soggetto, predicato e complemento) e di effettuare un’operazione aritmetica appena più complessa dell’addizione o della sottrazione a due cifre. (“Una percentuale di analfabetismo strutturale intorno al 33% in misura proporzionale per classi di età: dai 16 anni in avanti. Il 5% di essi non riesce a distinguere il valore e il senso di una lettera dall’altra. Il restante 28 ce la fa a leggere, ma con qualche difficoltà, parole semplici e a metterle insieme”. - Alfabeto Tullio De Mauro - Italia, Repubblica popolare fondata sull’asineria di A. Caporale 22.10.2016). Il dossier Ocse 2015 su scuola e università (Education at a Glance) segnala che l’Italia registra uno dei punteggi più bassi in termini di lettura e comprensione (literacy) dei 25-34enni titolari di un diploma universitario, e il dato si riflette sulle competenze logico-linguistiche degli insegnanti, e degli studenti, ostacolando anche il pieno sviluppo dell’educazione alla cittadinanza. Stessa desolazione coglie su un argomento “sensibile” il rapporto uomo - donna: un quarto degli italiani crede che quando i posti di lavoro scarseggiano i datori di lavoro dovrebbero dare la precedenza agli uomini. “Il 13% della popolazione pensa addirittura che sia innaturale per un uomo avere un capo donna e due persone su dieci pensano che l’uomo dovrebbe prendere le decisioni più importanti riguardanti la famiglia”. (Sessismo, nessun sogno è troppo grande per le bambine, di Alice Pilla Drago, Il fatto quotidiano - 2 novembre 2016). Per non parlare dell’esercizio del voto: da un astensionismo del 6,6% degli elettori alle politiche del 1976, in tempi recenti arriviamo alla non partecipazione al voto di circa un elettore su cinque (nel 2008 il dato statistico ha sfiorato il 20%). Oltre il 90% degli italiani guarda la TV. Nel “mio” Veneto: nel 2014 i giovani disoccupati sono il 22,2% % del totale e i ‘Neet’ sono il 16,8%. Rimane ancora bassa la percentuale dei laureati: la percentuale del 23,5% è inferiore alla media italiana di mezzo punto percentuale, e lontana dal target europeo del 40%. Eppure in questi giorni vengono pubblicati appelli contraddittori: da una parte quelli sulla necessità di un investimento urgente sulle capacità linguistiche degli studenti, dall’altra gli appelli (anche di addetti ai lavori) contro i compiti a scuola ed i voti.
In Italia il motto di Einaudi “Conoscere per deliberare” pare locuzione sconosciuta perché il primo termine è “disabitato”. Come possiamo partecipare se non sappiamo più analizzare, discriminare, decidere, informarci, leggere e educare, in altre parole conoscere? Se non sappiamo insomma usare quel pensiero critico che ci aiuta a scegliere? Forse è questo il presente vulnus collettivo italiano: l’indifferenza manifesta e condivisa, quasi esibita con orgoglio, per la conoscenza e viceversa la condiscendenza verso forme semplificate di informazione e distrazione di massa. Il problema di come l’informazione viene trasformata in conoscenza e di come tale conoscenza influenza le decisioni riguarda noi tutti. Insomma la partecipazione è diventata una parola vuota, una pura idealità, un’utopia, un miraggio. Partecipare per noi postmoderni significa mettere “mi piace” su qualche post di Facebook, oppure urlare senza filtri la nostra “verità” sui social, affermare un’identità fittizia ma virtuale, composta di pixel che dopo qualche secondo scivolano in basso nello schermo del nostro personal device.
Infine c’è la parola dell’anno 2016: post-verità (post-truth, an adjective defined as ‘relating to or denoting circumstances in which objective facts are less influential in shaping public opinion than appeals to emotion and personal belief’).
«Il problema della «post-verità» è diverso da quello delle bufale. Se il termine post-truth è stato proclamato «parola dell’anno» da Oxford Dictionaries non è perché nel 2016 si sia mentito più che negli anni precedenti, ma perché è calata l’attenzione a distinguere tra affermazioni vere e affermazioni false: e ce ne siamo accorti perché leader politici come Nigel Farage o Donald Trump ne hanno saputo trarre abilmente profitto. Ora, che i politici dicano bugie non è davvero una novità; la novità sta nel fatto che non si curino più di essere creduti. Il loro fine non è di persuadere chi ascolta della veridicità effettuale di quanto dicono: l’obiettivo dei discorsi è di compiacere inclinazioni precostituite e impermeabili alla verifica. All’inganno dello scaltro demagogo ai danni del popolo ingenuo è subentrata una forma di collusione empatica che scavalca bellamente la dimensione della prova di realtà. Il politico asseconda le false credenze che circolano, dà loro voce, ne escogita artatamente di altre, consone ai propri fini, e sfugge alle richieste di controllo». (M. Barenghi, Post verità, non tradire le emozioni, www.doppiozero.com).
«(...) gli affanni e le pene private non si sommano e non riescono a cementarsi in cause comuni. Date le circostanze, che cosa può unirci? La socialità, per così dire, è incerta, alla vana ricerca di un punto fermo cui appigliarsi, un traguardo visibile a tutti su cui convergere, compagni con cui serrare le file. Ce n'è molta tutto intorno: caotica, confusa, sfocata. Priva di sfoghi regolari, la nostra socialità viene tendenzialmente scaricata in esplosioni sporadiche e spettacolari, dalla vita breve, come tutte le esplosioni. L'occasione per liberare la socialità è fornita talvolta da orge di compassione e carità; talaltra da scoppi di aggressività smisurata contro un nemico pubblico appena scoperto (cioè, contro qualcuno che la maggior parte degli occupanti la sfera pubblica può riconoscere come nemico privato); altre volte ancora da un evento cui moltissime persone reagiscono intensamente nello stesso momento, sincronizzando la propria gioia, come nel caso della vittoria della Nazionale ai mondiali di calcio, o il proprio dolore, come nel caso della tragica morte della principessa Diana. Il guaio di tutte queste occasioni è che si consumano rapidamente: una volta tornati alle nostre faccende quotidiane, tutto riprende a funzionare come prima, come se nulla fosse successo. E quando la fiammata di fratellanza si esaurisce, chi viveva in solitudine si ritrova di nuovo solo, mentre il mondo comune, così sfolgorante solo un momento prima, sembra più buio che mai. E dopo l'esplosione, non resta energia a sufficienza per riaccendere le luci della ribalta». (Zygmunt Bauman. La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli 1999).
Davide Ubizzo
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