Dileguato nel giorno
il suono della campana.
Il profumo dei fiori
continua a risuonare.
Bashō
Riflettere filosoficamente sul buddhismo zen è un’impresa quasi disperata. I maestri zen non usano volentieri le parole e, quando le usano, queste si situano tra il detto e il non detto e diventano enigmatiche.
Il filosofo Byung-Chul Han, di origine coreana e di scuola tedesca, nel suo ultimo libro, “Filosofia del buddhismo zen” (nottetempo, 2018), prova a rispondere a questa sfida attraverso un confronto serrato tra i concetti basilari del buddhismo zen e i pensieri dei grandi filosofi dell’Occidente, da Platone ad Heidegger. Un confronto pieno di ostacoli.
Il primo ostacolo riguarda il significato da dare ai termini-concetti utilizzati. Hegel, ad esempio, nell’esaminare il “nulla”, nucleo del pensiero buddhista, lo assimila a Dio. In questo modo il buddhismo diventa una forma di teologia negativa a cui riferire concetti come sostanza, trascendenza, creazione, e a cui manca, secondo Hegel, un aspetto importante, la soggettività. In realtà, sostiene Byung-Chul Han, la mancanza di soggettività non è un limite, ma una caratteristica basilare di questa religione senza Dio. Inoltre il nulla del buddhismo zen non è una sostanza, non è trascendente, non gravita intorno a un centro, non offre un fondamento rassicurante: “Trasformare l’assenza di fondamento in un singolare sostegno e dimora, abitare il nulla, volgere il grande dubbio in un Sì: è in questa svolta singolare che consiste la forza spirituale del buddhismo zen. La via non conduce ad alcuna trascendenza” (pag. 20).
Schopenhauer coglie un’affinità tra la mistica di Meister Eckhard e il buddhismo, ma - incalza Byung-Chul Han - l’idea di Dio che è alla base della visione di Echkard mantiene una sostanzialità e una interiorità soggettiva del tutto estranee al buddhismo zen. L’illuminazione del buddhismo zen non consiste, come nella mistica cristiana, in una totale fusione con Dio, non implica uno stato “estatico” straordinario e una fuga dal mondo, ma una fiducia nel mondo, nella sua multiforme immanenza, e in “una mente svuotata, priva di interiorità”.
L’assenza di interiorità psichica è ben rappresentata, nel libro di Byung-Chul Han, dagli haiku che sono inseriti in ogni parte del testo. Negli haiku non si esprime la soggettività, ma il mondo così come si manifesta al di fuori di ogni intervento umano.
Gli ostacoli più grandi per la comprensione del buddhismo zen nascono, per noi occidentali, dal diverso valore che diamo alla vita e alla morte. Mentre per Heidegger l’esistenza quotidiana nasce dalla decisione eroica di uscire dal “semplice lasciarsi vivere”, dal vivere in modo inautentico (il “si fa”, “si dice”), l’illuminazione buddhista è “il risvegliarsi alla vita quotidiana. Ogni ricerca di un là straordinario fa smarrire la via. Quel che deve avvenire è un salto nel consueto qui” (pag.41). La vita diventa un soggiornare presso le cose che passano, senza alcun eroismo. L’immersione nella fugacità e l’abbandono dell’io egoistico portano a vivere interamente il momento presente e a diventare liberi per la morte: “dove ci si abbandona alla morte, dove ci si svuota, la morte non è più la mia morte” (pag. 125).
Ma, per comprendere meglio le differenze, torniamo al concetto centrale del buddhismo: la vacuità (sunyata). Mentre il pensiero occidentale si sviluppa intorno al concetto di sostanza (ciò che sta, resiste e persiste in ogni cambiamento) che identifica ogni cosa e la distingue dall’altra, il buddhismo, attraverso la vacuità, elimina ogni rigida opposizione, per cui “le cose fluttuano liberamente tra presenza e assenza, fra essere e non essere. Non manifestano niente di definitivo. Niente si impone; niente si chiude in sé” (pag. 51). L’abolizione dei limiti riguarda anche il rapporto “soggetto-oggetto”, tanto caro a noi occidentali: “La vacuità è una gentile in-differenza nella quale chi guarda è nello stesso tempo ciò che è guardato” (pag. 54).
Il vuoto diventa in questo modo un medium di gentilezza amichevole e il mondo, non più costituito da sostanze, ma da relazioni, diventa un mondo-relazione in cui ognuno rispecchia in sé gli altri. La gentilezza amichevole non è l’atteggiamento gentile di chi è compiaciuto di sé e non è neppure la gentilezza aristocratica di cui parla Nietzsche che presuppone una forte interiorità. L’arcaica gentilezza nasce dal vuoto, svuotato della distinzione tra sé e gli altri: “Il sorriso arcaico, questa profonda espressione della gentilezza amichevole, si desta là dove il volto perde la sua rigidezza e diventa privo di confini, là dove si trasforma in un volto di nessuno” (pag. 155).
Anna Colaiacovo
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