Augusto Cavadi |
Quaranta aspiranti filosofi in fila per due col resto di qualcosa. Ognuno dei quaranta partecipanti alla "XXI Settimana filosofica per non... filosofi", svoltasi a Lovere sul lago d'Iseo, ha tratto qualcosa dalle riflessioni sul tema "Lo spazio della speranza nell'epoca della disperazione".
Come sosteneva nel Medioevo San Tommaso d'Aquino, quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur che, grosso modo, corrisponderebbe in italiano a ognuno si porta a casa quanto entra nella sua sporta.
In realtà, come hanno osservato alcuni partecipanti, per la maggior parte nessuno avverte di essere "disperato". Lo siamo forse "a nostra insaputa"? L'obiezione mi ha dato da pensare.
Forse nel dizionario italiano manca qualcosa che indichi non la perdita della speranza (la di-sperazione), bensì l'assenza radicale della stessa (una sorta di a-sperazione). E questa condizione esistenziale conserva una duplice valenza.
Da una parte, infatti, mi pare che – per riprendere Martin Heidegger – sia sintomo di quella povertà così grande da non consentire di avvertirsi poveri: la generazione immediatamente successiva alla mia non si sente orfana delle grandi narrazioni, dal cristianesimo al marxismo, perché non ha fatto in tempo ad aderirvi, in gioventù, con la passione incondizionata di alcuni di noi. Ma vorrei aggiungere immediatamente dall'altra parte questa assenza radicale di speranza si manifesta o, almeno, si può manifestare, in positivo come presenza al presente, come valorizzazione di ogni giornata, di ogni ora, di ogni momento. E' la grande lezione dei filosofi ellenistici occidentali e dei saggi buddhisti orientali.
C'è un modo per conciliare l'attenzione al pur sfuggente presente e uno sguardo lungo sul futuro che non degeneri in illusione alienante? Ecco una mia seconda notazione: il pensatore marxista (eretico) Ernest Bloch sostiene di sì.
E' possibile, anzi doveroso, anzi inevitabile, coltivare una "utopia concreta": una progettualità orientata al "non ancora" che, però, si basi sull'analisi critica della situazione esistente, del "già". Egli, nella seconda metà del XX secolo, riteneva che tale "utopia concreta" fosse identificabile nel marxismo, a patto che lo si intendesse come sintesi in divenire della sua "corrente calda" (passione profetica risalente alla tradizione biblica) e della sua "corrente fredda" (teoria scientifica della società e della storia elaborata da Marx e Engels): alcuni di noi che non erano marxisti neppure nel Sessantotto, quando sembrava intellettualmente e eticamente obbligatorio esserlo, continuiamo a pensare che questa identificazione blochiana "Ubi Lenin, ibi Jerusalem" non colga nel segno.
Ma siamo, oggi come allora, convinti con Giorgio La Pira e molti altri, che il marxismo, fallimentare come terapia in quanto basato su un'antropologia errata, sia istruttivo – anzi, irrinunciabile – come diagnosi.
E non è l'ultima delle disgrazie dei nostri giorni che la Destra più potente e più ignorante della storia occidentale, intendo la Destra che governa alcune zone cruciali del pianeta come gli Stati Uniti d'America e che minaccia di installarsi senza contrappesi in Italia – abbia convinto la stragrande maggioranza della popolazione che marxismo sia sinonimo di totalitarismo regressivo.
Il riferimento a Marx mi suggerisce una terza notazione. Nel corso di un laboratorio serale, Andrea (il giovane filosofo che lo conduceva) ha chiesto di scrivere su un foglietto la risposta a due domande: "Cosa ti manca nella vita? Cosa stai facendo per ottenerlo?". Le risposte di cui si è avuta contezza (le leggevano a voce alta solo i partecipanti che lo decidevano) sono state tutte in chiave soggettivo-esistenziale: "mi manca la capacità di relazionarmi con gli altri", "mi manca la coerenza quotidiana con i miei princìpi etici", "mi manca una passione che mi coinvolga fortemente"...
Nessuna risposta ha riguardato l'ambito sociale-politico. Anche questo dato, a mio avviso, si presta a considerazioni di segno opposto. Di segno negativo: le speranze collettive sembrano tramontate per sempre o, per lo meno, essersi eclissate. Anche nei casi in cui assistiamo ancora con sdegno alle tragedie epocali – dai migranti che annegano a pochi chilometri dalle nostre spiagge, festosamente animate, alle bambine vendute e stuprate per pochi dollari in aree vastissime del pianeta – vi assistiamo con sorda rassegnazione: non vediamo organizzazioni partitiche, sindacali, religiose cui affidare la nostra impotenza individuale per trasformarla in energia collettiva.
Per la verità esistono alcune Organizzazioni non governative che lavorano con sufficiente efficacia, ma – a parte il fatto che per mantenere fiducia in esse è consigliabile non avvicinarsi troppo a osservarne le dinamiche interne e le inevitabili disfunzioni – danno l'impressione di agire solo posticipatamente e settorialmente; laddove si è convinti, più o meno lucidamente, che i drammi planetari attuali vadano affrontati preventivamente e, soprattutto, in un'ottica complessiva.
Tuttavia il tenore delle risposte alle domande di Andrea potrebbe conservare anche una valenza positiva: l'intuizione che le speranze al plurale nascono sempre, e si mantengono in vita, dalle speranze al singolare. Un'intuizione molto responsabilizzante che elide in radice ogni logica di delega: per dirla con Gandhi – che certamente non era un individualista apolitico – ognuno di noi deve impegnarsi ad essere per primo, nella propria sfera personale, il cambiamento che spera per il mondo.
La speranza dell'io non esclude la speranza del noi; anzi, se autentica e intensa, non può che contagiare centrifugamente gli altri. La speranza, che per sua essenza è un atteggiamento del soggetto, può però essere condivisa da altri soggetti sino a diventare, a macchia d'olio, la speranza se non di un popolo di una consistente maggioranza di umani.
Come sosteneva nel Medioevo San Tommaso d'Aquino, quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur che, grosso modo, corrisponderebbe in italiano a ognuno si porta a casa quanto entra nella sua sporta.
In realtà, come hanno osservato alcuni partecipanti, per la maggior parte nessuno avverte di essere "disperato". Lo siamo forse "a nostra insaputa"? L'obiezione mi ha dato da pensare.
Forse nel dizionario italiano manca qualcosa che indichi non la perdita della speranza (la di-sperazione), bensì l'assenza radicale della stessa (una sorta di a-sperazione). E questa condizione esistenziale conserva una duplice valenza.
Da una parte, infatti, mi pare che – per riprendere Martin Heidegger – sia sintomo di quella povertà così grande da non consentire di avvertirsi poveri: la generazione immediatamente successiva alla mia non si sente orfana delle grandi narrazioni, dal cristianesimo al marxismo, perché non ha fatto in tempo ad aderirvi, in gioventù, con la passione incondizionata di alcuni di noi. Ma vorrei aggiungere immediatamente dall'altra parte questa assenza radicale di speranza si manifesta o, almeno, si può manifestare, in positivo come presenza al presente, come valorizzazione di ogni giornata, di ogni ora, di ogni momento. E' la grande lezione dei filosofi ellenistici occidentali e dei saggi buddhisti orientali.
C'è un modo per conciliare l'attenzione al pur sfuggente presente e uno sguardo lungo sul futuro che non degeneri in illusione alienante? Ecco una mia seconda notazione: il pensatore marxista (eretico) Ernest Bloch sostiene di sì.
E' possibile, anzi doveroso, anzi inevitabile, coltivare una "utopia concreta": una progettualità orientata al "non ancora" che, però, si basi sull'analisi critica della situazione esistente, del "già". Egli, nella seconda metà del XX secolo, riteneva che tale "utopia concreta" fosse identificabile nel marxismo, a patto che lo si intendesse come sintesi in divenire della sua "corrente calda" (passione profetica risalente alla tradizione biblica) e della sua "corrente fredda" (teoria scientifica della società e della storia elaborata da Marx e Engels): alcuni di noi che non erano marxisti neppure nel Sessantotto, quando sembrava intellettualmente e eticamente obbligatorio esserlo, continuiamo a pensare che questa identificazione blochiana "Ubi Lenin, ibi Jerusalem" non colga nel segno.
Ma siamo, oggi come allora, convinti con Giorgio La Pira e molti altri, che il marxismo, fallimentare come terapia in quanto basato su un'antropologia errata, sia istruttivo – anzi, irrinunciabile – come diagnosi.
E non è l'ultima delle disgrazie dei nostri giorni che la Destra più potente e più ignorante della storia occidentale, intendo la Destra che governa alcune zone cruciali del pianeta come gli Stati Uniti d'America e che minaccia di installarsi senza contrappesi in Italia – abbia convinto la stragrande maggioranza della popolazione che marxismo sia sinonimo di totalitarismo regressivo.
Il riferimento a Marx mi suggerisce una terza notazione. Nel corso di un laboratorio serale, Andrea (il giovane filosofo che lo conduceva) ha chiesto di scrivere su un foglietto la risposta a due domande: "Cosa ti manca nella vita? Cosa stai facendo per ottenerlo?". Le risposte di cui si è avuta contezza (le leggevano a voce alta solo i partecipanti che lo decidevano) sono state tutte in chiave soggettivo-esistenziale: "mi manca la capacità di relazionarmi con gli altri", "mi manca la coerenza quotidiana con i miei princìpi etici", "mi manca una passione che mi coinvolga fortemente"...
Nessuna risposta ha riguardato l'ambito sociale-politico. Anche questo dato, a mio avviso, si presta a considerazioni di segno opposto. Di segno negativo: le speranze collettive sembrano tramontate per sempre o, per lo meno, essersi eclissate. Anche nei casi in cui assistiamo ancora con sdegno alle tragedie epocali – dai migranti che annegano a pochi chilometri dalle nostre spiagge, festosamente animate, alle bambine vendute e stuprate per pochi dollari in aree vastissime del pianeta – vi assistiamo con sorda rassegnazione: non vediamo organizzazioni partitiche, sindacali, religiose cui affidare la nostra impotenza individuale per trasformarla in energia collettiva.
Per la verità esistono alcune Organizzazioni non governative che lavorano con sufficiente efficacia, ma – a parte il fatto che per mantenere fiducia in esse è consigliabile non avvicinarsi troppo a osservarne le dinamiche interne e le inevitabili disfunzioni – danno l'impressione di agire solo posticipatamente e settorialmente; laddove si è convinti, più o meno lucidamente, che i drammi planetari attuali vadano affrontati preventivamente e, soprattutto, in un'ottica complessiva.
Tuttavia il tenore delle risposte alle domande di Andrea potrebbe conservare anche una valenza positiva: l'intuizione che le speranze al plurale nascono sempre, e si mantengono in vita, dalle speranze al singolare. Un'intuizione molto responsabilizzante che elide in radice ogni logica di delega: per dirla con Gandhi – che certamente non era un individualista apolitico – ognuno di noi deve impegnarsi ad essere per primo, nella propria sfera personale, il cambiamento che spera per il mondo.
La speranza dell'io non esclude la speranza del noi; anzi, se autentica e intensa, non può che contagiare centrifugamente gli altri. La speranza, che per sua essenza è un atteggiamento del soggetto, può però essere condivisa da altri soggetti sino a diventare, a macchia d'olio, la speranza se non di un popolo di una consistente maggioranza di umani.
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