René Magritte, "Il falso specchio" (1928), olio su tela |
Forse Steve Jobs non pensava, inserendo sui suoi smartphone la fotocamera frontale, di dare avvio a comportamenti così compulsivi e diffusi come quelli che vediamo quotidianamente. Fotografarsi e condividere le foto sui social network è diventata, oggi, una vera e propria mania.
Che cosa spinge persone di tutte le età a farsi un selfie nelle condizioni e nei luoghi più impensati? Che senso ha fotografarsi durante un funerale (è accaduto anche questo!) o in una situazione talmente precaria da mettere a rischio la propria vita? Certo, in questi comportamenti la componente narcisistica è molto forte, ma, accanto al bisogno di rappresentazione di sé, c'è un'esigenza altrettanto forte di condivisione sociale. Convivono il bisogno di specchiarsi e di testimoniare la propria presenza agli altri.
C'è, in definitiva, un problema di identità.
Nel processo di costruzione dell'identità, lo stadio dello specchio (studiato da Lacan) è un passaggio fondamentale. L'essere umano, quando nasce, non è dotato, come gli animali, di istinti che garantiscono l'adattamento al mondo esterno. La relazione con il mondo, tra l'organismo e l'ambiente, è mediata dall'immaginario. Il bambino, tra i sei e i diciotto mesi, di fronte a uno specchio, all'inizio cerca di afferrare l'immagine che gli appare, come se si trattasse di un oggetto reale. Poi si rende conto che è un'immagine. Infine che è la sua immagine, diversa dalla madre che è con lui. In una fase in cui non ha ancora la padronanza del proprio corpo e lo vive come frammentato, il piccolo acquista una prima consapevolezza di sè come un tutto unitario (la propria immagine unificata) attraverso lo sguardo dell'altro, perché è questo sguardo che conferma che è lui.
Ho bisogno dell'altro per diventare me stesso: è questa la pietra angolare dell'identità. Ed è un processo cognitivo e affettivo insieme.
Ma chi sono io? Per dire IO abbiamo bisogno di raddoppiare noi stessi, abbiamo bisogno di un soggetto e di un oggetto: "Laddove mi vedo, non ci sono, dove ci sono, non mi vedo". (Lacan)
Da un lato c'è un corpo-pulsionale, la grande ragione del corpo (Nietzsche), dall'altro l'io immagine.
Ognuno di noi deve confrontarsi con questo doppio e con un'immagine di sè che è intima e nello stesso tempo estranea.
L'illusione narcisistica consiste nel tentativo (disperato) di far coincidere noi stessi con la nostra immagine e nel non riconoscere all'altro da noi una realtà autonoma. Nel mito, infatti, Narciso, del tutto insensibile all'amore di Eco, muore perché sprofonda nell'acqua cercando di congiungersi con la propria immagine.
Il nostro tempo alimenta l'illusione narcisistica. Il mercato globale ha bisogno di consumatori perennemente insoddisfatti (i bisogni non devono avere mai fine), sempre a rischio di perdersi davanti all'eccesso di stimoli a cui sono esposti e sempre più soli "perché il consumo è un'attività solitaria (è perfino l'archetipo della solitudine) anche quando avviene in compagnia" (Bauman). Ne risulta una società sempre più privatizzata e priva di riferimenti certi, che stimola gli individui a contare solo sulle proprie forze, a percepire gli altri come ostacoli per la propria affermazione e a perseguire il proprio vantaggio personale. Le relazioni, se si creano, devono potersi sciogliere facilmente perché sono un impedimento verso altre opportunità, una limitazione delle libertà.
Nel tempo del capitalismo avanzato, il potere, come ci ha insegnato Foucault, non si presenta più in forma dispotica, ma entra nella vita e si insinua nei meccanismi e nei procedimenti emotivi quotidiani. Si sviluppa all'interno di un fitto reticolo mobile e concreto di rapporti, si trasforma in un potere seduttivo apparentemente innocuo rispetto al passato e prende la forma di regole comportamentali interiorizzate dai singoli. Il potere agisce sugli individui attraverso le "pratiche", perché ognuno di noi diventa quello che è attraverso quello che fa ogni giorno, attraverso i luoghi che abita, i gesti che compie, le relazioni che intreccia, i dispositivi che utilizza.
I dispositivi (cioè qualsiasi cosa abbia la capacità di determinare e orientare pensieri, gesti, comportamenti) con cui abbiamo a che fare quotidianamente ci inducono ad agire in un determinato modo, influiscono sul funzionamento del nostro cervello e ci trasformano. I dispositivi informatici, ad esempio, stanno cambiando radicalmente il nostro modo di vivere e il nostro modo di vivere il tempo, dal momento che non esiste più una netta distinzione tra tempo del lavoro e tempo libero. Il mercato ci richiede di essere sempre connessi e visibili ed è una richiesta che è ormai diventata una nostra esigenza.
Siamo soggettività che si pensano libere e che in realtà rispondono "liberamente" all'applicazione dei poteri.
La pratica del selfie, in particolare, rivela molto del nostro tempo, di una fase storica in cui l'accessibilità e la condivisione sembrano diventate un "obbligo" e il confine tra pubblico e privato sfuma sempre più.
Ma rivela soprattutto molto di noi, del nostro bisogno ossessivo di esserci - IO CI SONO! GUARDAMI - che alimenta il dubbio di non esserci, nell'attesa spasmodica di un like.
Che cosa spinge persone di tutte le età a farsi un selfie nelle condizioni e nei luoghi più impensati? Che senso ha fotografarsi durante un funerale (è accaduto anche questo!) o in una situazione talmente precaria da mettere a rischio la propria vita? Certo, in questi comportamenti la componente narcisistica è molto forte, ma, accanto al bisogno di rappresentazione di sé, c'è un'esigenza altrettanto forte di condivisione sociale. Convivono il bisogno di specchiarsi e di testimoniare la propria presenza agli altri.
C'è, in definitiva, un problema di identità.
Nel processo di costruzione dell'identità, lo stadio dello specchio (studiato da Lacan) è un passaggio fondamentale. L'essere umano, quando nasce, non è dotato, come gli animali, di istinti che garantiscono l'adattamento al mondo esterno. La relazione con il mondo, tra l'organismo e l'ambiente, è mediata dall'immaginario. Il bambino, tra i sei e i diciotto mesi, di fronte a uno specchio, all'inizio cerca di afferrare l'immagine che gli appare, come se si trattasse di un oggetto reale. Poi si rende conto che è un'immagine. Infine che è la sua immagine, diversa dalla madre che è con lui. In una fase in cui non ha ancora la padronanza del proprio corpo e lo vive come frammentato, il piccolo acquista una prima consapevolezza di sè come un tutto unitario (la propria immagine unificata) attraverso lo sguardo dell'altro, perché è questo sguardo che conferma che è lui.
Ho bisogno dell'altro per diventare me stesso: è questa la pietra angolare dell'identità. Ed è un processo cognitivo e affettivo insieme.
Ma chi sono io? Per dire IO abbiamo bisogno di raddoppiare noi stessi, abbiamo bisogno di un soggetto e di un oggetto: "Laddove mi vedo, non ci sono, dove ci sono, non mi vedo". (Lacan)
Da un lato c'è un corpo-pulsionale, la grande ragione del corpo (Nietzsche), dall'altro l'io immagine.
Ognuno di noi deve confrontarsi con questo doppio e con un'immagine di sè che è intima e nello stesso tempo estranea.
L'illusione narcisistica consiste nel tentativo (disperato) di far coincidere noi stessi con la nostra immagine e nel non riconoscere all'altro da noi una realtà autonoma. Nel mito, infatti, Narciso, del tutto insensibile all'amore di Eco, muore perché sprofonda nell'acqua cercando di congiungersi con la propria immagine.
Il nostro tempo alimenta l'illusione narcisistica. Il mercato globale ha bisogno di consumatori perennemente insoddisfatti (i bisogni non devono avere mai fine), sempre a rischio di perdersi davanti all'eccesso di stimoli a cui sono esposti e sempre più soli "perché il consumo è un'attività solitaria (è perfino l'archetipo della solitudine) anche quando avviene in compagnia" (Bauman). Ne risulta una società sempre più privatizzata e priva di riferimenti certi, che stimola gli individui a contare solo sulle proprie forze, a percepire gli altri come ostacoli per la propria affermazione e a perseguire il proprio vantaggio personale. Le relazioni, se si creano, devono potersi sciogliere facilmente perché sono un impedimento verso altre opportunità, una limitazione delle libertà.
Nel tempo del capitalismo avanzato, il potere, come ci ha insegnato Foucault, non si presenta più in forma dispotica, ma entra nella vita e si insinua nei meccanismi e nei procedimenti emotivi quotidiani. Si sviluppa all'interno di un fitto reticolo mobile e concreto di rapporti, si trasforma in un potere seduttivo apparentemente innocuo rispetto al passato e prende la forma di regole comportamentali interiorizzate dai singoli. Il potere agisce sugli individui attraverso le "pratiche", perché ognuno di noi diventa quello che è attraverso quello che fa ogni giorno, attraverso i luoghi che abita, i gesti che compie, le relazioni che intreccia, i dispositivi che utilizza.
I dispositivi (cioè qualsiasi cosa abbia la capacità di determinare e orientare pensieri, gesti, comportamenti) con cui abbiamo a che fare quotidianamente ci inducono ad agire in un determinato modo, influiscono sul funzionamento del nostro cervello e ci trasformano. I dispositivi informatici, ad esempio, stanno cambiando radicalmente il nostro modo di vivere e il nostro modo di vivere il tempo, dal momento che non esiste più una netta distinzione tra tempo del lavoro e tempo libero. Il mercato ci richiede di essere sempre connessi e visibili ed è una richiesta che è ormai diventata una nostra esigenza.
Siamo soggettività che si pensano libere e che in realtà rispondono "liberamente" all'applicazione dei poteri.
La pratica del selfie, in particolare, rivela molto del nostro tempo, di una fase storica in cui l'accessibilità e la condivisione sembrano diventate un "obbligo" e il confine tra pubblico e privato sfuma sempre più.
Ma rivela soprattutto molto di noi, del nostro bisogno ossessivo di esserci - IO CI SONO! GUARDAMI - che alimenta il dubbio di non esserci, nell'attesa spasmodica di un like.
Anna Colaiacovo
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