Tra le parole più svilite del vocabolario italiano rientrano certamente il termine "virtù" e i suoi derivati. Di "un padre virtuoso" sospettiamo inconfessabili vizi nascosti; "una ragazza virtuosa" è quanto di più scostante, antipatico, si possa immaginare... Una dose moderata di "virtù" l’ammettiamo volentieri, ma se qualcuno ha troppe "virtù" – o ne ha poche, ma in misura esagerata – ci risulta insopportabile.
Per complicare il quadro, come se non fosse abbastanza confuso, nell’uso comune il sostantivo "virtù" è abbinato a due aggettivi di sapore clericale: "teologali" e "cardinali".
Se non si fa piazza pulita di un po’ di "pre-comprensioni" di cui spogliarsi è impossibile affrontare questa tematica con un briciolo di possibilità di chiarezza.
Cominciamo dal "pre-giudizio" più facile da smontare: non è vero che la categoria "virtù" sia originariamente ed essenzialmente religiosa. Vero che per i cristiani – sulla base di un passo dell’epistolario paolino – le tre virtù più elevate siano "teologali", donate da Dio per grazia soprannaturale: la fede, la speranza e soprattutto la carità (o amore agapico). Ma secoli prima del cristianesimo la filosofia greca aveva individuato delle "virtù" fondamentali, basilari, su cui poggiava l’intera vita morale di un soggetto. Tali virtù – sulle quali ruotavano tutte le altre come sui "cardini" di una porta (da cui l’aggettivo assolutamente laico di "cardinali") – erano la prudenza, la giustizia, la forza (o coraggio) e la temperanza.
Un secondo pregiudizio è legato alla mentalità moralistica che, giustamente, contestiamo da quando siamo entrati nell’adolescenza. In quest’ottica, infatti, essere virtuosi significa collezionare medaglie – fisiche o simboliche – obbedendo alle leggi scritte, agli ordini ricevuti, alle norme dettate dalla consuetudine e dalla maggioranza. Dimentichiamo completamente il significato etimologico di virtus come valore, qualità intrinseca, pienezza di vita. Virtuosi si è nella misura in cui si sono attuate le nostre potenzialità: tanto quanto la nostra soggettività è esplosa, è fiorita.
Un terzo pregiudizio è legato al fraintendimento di una massima – in sé verissima – di Aristotele: "In medio stat virtus" (la virtù sta nel mezzo). L’interpretazione borghese, ormai dominante, traduce: la virtù sta a metà fra il troppo e il troppo poco. La persona generosa, ad esempio, dà ogni tanto qualcosina in elemosina, ma non si priva totalmente dei suoi beni materiali come san Francesco. La persona sincera non dice bugie senza ragione, ma solo quando è opportuno... e così via. Insomma, se la virtù è rappresentabile come un’asticella di un metro, il vero virtuoso si attesta a 50 centimetri: se va oltre, diventa "troppo" generoso o "troppo" sincero o...
Questa concezione non è però né di Aristotele né di san Tommaso d’Aquino né di nessuno dei pensatori moderni e contemporanei che ne hanno condiviso l’insegnamento. Una virtù, una qualità positiva, non è mai "troppo": è potenzialmente sconfinata. Più cresce, più si attesta in medio, a metà: non a metà della sua asticella, ma a metà fra il vizio che si lascia da un lato e il vizio che si lascia da un altro lato. La virtù è un pregio che si sviluppa sul filo fra due errori, un sentiero che si snoda sulla cresta di una montagna fra due vallate: in sé non ha limiti, purché non scivoli né a destra né a sinistra. Il generoso, ad esempio, non è avaro, ma neppure prodigo: il prodigo non è "troppo generoso", ma la caricatura viziosa del generoso. C’è un abisso fra san Francesco e un prodigo: il primo è molto generoso, il secondo non lo è. Così il sincero non è bugiardo, ma neppure incapace di trattenere la verità quando nessuno gliela richiede: l’ingenuo che si auto-espone a derisione o il sadico che brandisce una verità per umiliare l’altro non sono "troppo sinceri", sono la negazione per eccesso della sincerità. Un ultimo esempio: la prudenza ossia l’arte di tradurre in azione i propri princìpi etici. Essa è una virtù e in quanto tale non smette mai di perfezionarsi. La tradisce chi non si concede il tempo necessario per riflettere prima di compiere un gesto: se vedo un’ombra al tramonto nel giardino di casa e sparo, pecco certamente di imprudenza e posso scoprire di aver ferito il giardiniere o mio fratello. Ma se io ricevo una proposta di lavoro e ci penso su non uno o due giorni, ma uno o due anni, e alla fine quando decido di accettarla scopro di essere stato scavalcato da un altro candidato, posso dire di essere stato "troppo prudente"? No, sono stato imprudente. La prudenza infatti prescrive di ponderare di volta in volta le decisioni secondo le circostanze: dunque né troppo poco né troppo. Imprudente è tanto il precipitoso quanto l’iper-cauto, l’irresoluto*. Con questi chiarimenti, da oggi, un lettore attento e "spre-giudicato" non dovrebbe più dire che "il troppo storpia", anche quando è eccesso di bene, di valore, di pregio. Ma questa è solo una mia speranza umana, troppo umana, condannata a restare irrealizzata.
(*) Altra voragine di equivoci, data la denigrazione di questa virtù da parte della società consumistica in (sacrosanta) polemica col moralismo ascetico degli ambienti cattolici e protestanti, a proposito della seconda virtù cardinale: la temperanza. Come per la prudenza, anche per la temperanza si può sbagliare per difetto (e qua siamo tutti linguisticamente d'accordo: "Mio figlio non si è più laureato perché a Bologna è stato poco temperante: studiava poco, non si perdeva un'occasione di svago, trascorreva ore intere nei pub..."), ma anche per eccesso. E qua casca l'asino. Se una persona mangia troppo poco sino a deperire o non sfiora con una carezza una persona che le piace sino a restare senza partner tutta la vita, noi diciamo che è stata "troppo temperante". Ma è falso! La temperanza, come ogni virtù, è equilibrio e "giusto mezzo": sono intemperante non solo quando bevo troppo alcolici, ma anche quando non li bevo per nulla per ragioni puramente etiche, anzi moralistiche; non solo quando non penso che a scopare, ma anche quando mi impongo di escludere per tutta la vita dalla mia mente ogni desiderio di piacere venereo (con l'effetto, diceva Karl Kraus, che a uno gli vengono i brufoli, a un altro i disegni di legge in difesa della morale pubblica...). Insomma: sarebbe bello che imparassimo a dire alla zitella (incolpevole della sua solitudine), o al Tizio ossessionato dal suo fisico al punto da rischiare l'anoressia, NON: «Sei troppo temperante!» MA: «Sei POCO temperante». Forse ci può aiutare la meditazione di una matita: che è mal temperata sia quando non lo è almeno al punto da disegnare sia quando lo è talmente che perde la punta. La matita temperata scrive bene: se scrive male, per difetto o per eccesso, è in-temperata!
Per complicare il quadro, come se non fosse abbastanza confuso, nell’uso comune il sostantivo "virtù" è abbinato a due aggettivi di sapore clericale: "teologali" e "cardinali".
Se non si fa piazza pulita di un po’ di "pre-comprensioni" di cui spogliarsi è impossibile affrontare questa tematica con un briciolo di possibilità di chiarezza.
Cominciamo dal "pre-giudizio" più facile da smontare: non è vero che la categoria "virtù" sia originariamente ed essenzialmente religiosa. Vero che per i cristiani – sulla base di un passo dell’epistolario paolino – le tre virtù più elevate siano "teologali", donate da Dio per grazia soprannaturale: la fede, la speranza e soprattutto la carità (o amore agapico). Ma secoli prima del cristianesimo la filosofia greca aveva individuato delle "virtù" fondamentali, basilari, su cui poggiava l’intera vita morale di un soggetto. Tali virtù – sulle quali ruotavano tutte le altre come sui "cardini" di una porta (da cui l’aggettivo assolutamente laico di "cardinali") – erano la prudenza, la giustizia, la forza (o coraggio) e la temperanza.
Un secondo pregiudizio è legato alla mentalità moralistica che, giustamente, contestiamo da quando siamo entrati nell’adolescenza. In quest’ottica, infatti, essere virtuosi significa collezionare medaglie – fisiche o simboliche – obbedendo alle leggi scritte, agli ordini ricevuti, alle norme dettate dalla consuetudine e dalla maggioranza. Dimentichiamo completamente il significato etimologico di virtus come valore, qualità intrinseca, pienezza di vita. Virtuosi si è nella misura in cui si sono attuate le nostre potenzialità: tanto quanto la nostra soggettività è esplosa, è fiorita.
Un terzo pregiudizio è legato al fraintendimento di una massima – in sé verissima – di Aristotele: "In medio stat virtus" (la virtù sta nel mezzo). L’interpretazione borghese, ormai dominante, traduce: la virtù sta a metà fra il troppo e il troppo poco. La persona generosa, ad esempio, dà ogni tanto qualcosina in elemosina, ma non si priva totalmente dei suoi beni materiali come san Francesco. La persona sincera non dice bugie senza ragione, ma solo quando è opportuno... e così via. Insomma, se la virtù è rappresentabile come un’asticella di un metro, il vero virtuoso si attesta a 50 centimetri: se va oltre, diventa "troppo" generoso o "troppo" sincero o...
Questa concezione non è però né di Aristotele né di san Tommaso d’Aquino né di nessuno dei pensatori moderni e contemporanei che ne hanno condiviso l’insegnamento. Una virtù, una qualità positiva, non è mai "troppo": è potenzialmente sconfinata. Più cresce, più si attesta in medio, a metà: non a metà della sua asticella, ma a metà fra il vizio che si lascia da un lato e il vizio che si lascia da un altro lato. La virtù è un pregio che si sviluppa sul filo fra due errori, un sentiero che si snoda sulla cresta di una montagna fra due vallate: in sé non ha limiti, purché non scivoli né a destra né a sinistra. Il generoso, ad esempio, non è avaro, ma neppure prodigo: il prodigo non è "troppo generoso", ma la caricatura viziosa del generoso. C’è un abisso fra san Francesco e un prodigo: il primo è molto generoso, il secondo non lo è. Così il sincero non è bugiardo, ma neppure incapace di trattenere la verità quando nessuno gliela richiede: l’ingenuo che si auto-espone a derisione o il sadico che brandisce una verità per umiliare l’altro non sono "troppo sinceri", sono la negazione per eccesso della sincerità. Un ultimo esempio: la prudenza ossia l’arte di tradurre in azione i propri princìpi etici. Essa è una virtù e in quanto tale non smette mai di perfezionarsi. La tradisce chi non si concede il tempo necessario per riflettere prima di compiere un gesto: se vedo un’ombra al tramonto nel giardino di casa e sparo, pecco certamente di imprudenza e posso scoprire di aver ferito il giardiniere o mio fratello. Ma se io ricevo una proposta di lavoro e ci penso su non uno o due giorni, ma uno o due anni, e alla fine quando decido di accettarla scopro di essere stato scavalcato da un altro candidato, posso dire di essere stato "troppo prudente"? No, sono stato imprudente. La prudenza infatti prescrive di ponderare di volta in volta le decisioni secondo le circostanze: dunque né troppo poco né troppo. Imprudente è tanto il precipitoso quanto l’iper-cauto, l’irresoluto*. Con questi chiarimenti, da oggi, un lettore attento e "spre-giudicato" non dovrebbe più dire che "il troppo storpia", anche quando è eccesso di bene, di valore, di pregio. Ma questa è solo una mia speranza umana, troppo umana, condannata a restare irrealizzata.
Augusto Cavadi
(*) Altra voragine di equivoci, data la denigrazione di questa virtù da parte della società consumistica in (sacrosanta) polemica col moralismo ascetico degli ambienti cattolici e protestanti, a proposito della seconda virtù cardinale: la temperanza. Come per la prudenza, anche per la temperanza si può sbagliare per difetto (e qua siamo tutti linguisticamente d'accordo: "Mio figlio non si è più laureato perché a Bologna è stato poco temperante: studiava poco, non si perdeva un'occasione di svago, trascorreva ore intere nei pub..."), ma anche per eccesso. E qua casca l'asino. Se una persona mangia troppo poco sino a deperire o non sfiora con una carezza una persona che le piace sino a restare senza partner tutta la vita, noi diciamo che è stata "troppo temperante". Ma è falso! La temperanza, come ogni virtù, è equilibrio e "giusto mezzo": sono intemperante non solo quando bevo troppo alcolici, ma anche quando non li bevo per nulla per ragioni puramente etiche, anzi moralistiche; non solo quando non penso che a scopare, ma anche quando mi impongo di escludere per tutta la vita dalla mia mente ogni desiderio di piacere venereo (con l'effetto, diceva Karl Kraus, che a uno gli vengono i brufoli, a un altro i disegni di legge in difesa della morale pubblica...). Insomma: sarebbe bello che imparassimo a dire alla zitella (incolpevole della sua solitudine), o al Tizio ossessionato dal suo fisico al punto da rischiare l'anoressia, NON: «Sei troppo temperante!» MA: «Sei POCO temperante». Forse ci può aiutare la meditazione di una matita: che è mal temperata sia quando non lo è almeno al punto da disegnare sia quando lo è talmente che perde la punta. La matita temperata scrive bene: se scrive male, per difetto o per eccesso, è in-temperata!
Da: livesicilia.it
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