Alle tre domande poste da Bruno Vergani (vedi post precedente in questa stessa rubrica "Manuale per Vip") è seguito sin ora un rapidissimo commento di Paolo Cervari. In attesa che altri vogliano interloquire mi pare cortese proporre qualche altra considerazione.
La prima domanda di Bruno era: «Nel pensiero l’eccessiva composizione può produrre decomposizione?». Forse influenzato dalla fatica di tenere a bada la mia tendenza caratteriale a “comporre” poco i miei pensieri, a procedere più intuitivamente che analiticamente, risponderei: «No di certo!». Quando rileggo i miei scritti molto spesso mi pento di averli poco meditati, poco argomentati, poco documentati. E allora vorrei ritrovarmi nel detto di Heidegger secondo cui ogni grande pensatore in fondo pensa, per tutta la vita, un solo pensiero. Ciò assodato, devo subito aggiungere che conosco molte persone che riflettono tanto su una questione da non arrivare mai a esporre una propria opinione. In questi casi non è in atto un approfondimento fruttuoso quanto uno sterile arrovellamento. Una cosa è la serietà di chi pondera, anche molto a lungo, i pro e i contra di una tesi; tutta un’altra cosa è l’orgoglio smisurato di chi si rode nell’insicurezza per il timore di essere confutato (e dunque finisce nell’evitare di pronunziarsi, sia pur ipoteticamente).
La seconda domanda di Bruno è strettamente legata alla prima: «Quale il rapporto della filosofia - in primis quella ‘pratica’ - con l’erudizione?». E’ una questione alla quale l’associazione “Phronesis” ha provato a rispondere con un intero volume a più mani, curato da Maria Luisa Martini, Filosofie nella consulenza filosofica (Liguori, Napoli 2013). Nel titolo del mio contributo ho sintetizzato ciò che molti di noi riteniamo in proposito: “C’è ma non si vede (specie se è di buona qualità)”. Il soggetto (sottinteso) della frase è l’erudizione o, meglio, la conoscenza dei testi fondamentali della storia della filosofia da Platone ai nostri contemporanei. A mio avviso ogni filosofo, dunque anche i filosofi-in-pratica, devono alimentarsi quotidianamente alla fonte dei grandi maestri: ma di queste conoscenze non devono fare bella mostra, devono tenerle per così dire nel proprio retroterra mentale. Decisiva non è la prontezza nel citare, in greco o in tedesco, la frase letterale, bensì la freschezza delle proprie intuizioni. Su questo aspetto, originariamente platonico, Giorgio Giacometti ha di recente scritto un intero volumone edito da Mimesis: Platone 2.0. La rinascita della filosofia come palestra di vita. Ma mi accorgo che ho già citato due testi in poche righe: troppi! Mi fermo per non cadere anch’io nell’eccesso di erudizione…
Con la terza domanda («Kant vedeva il soggetto, l’Io, come legislatore dei fenomeni. Tutto il potere al soggetto?») Bruno apre una questione talmente radicale da non potersi certo esaurire in poche battute. Suppongo che in questo nostro blog potrà essere ripresa più volte e in maniera più articolata. Dico solo che Kant ci ha ricordato di essere un filtro selettivo di ciò che ci circonda e ci raggiunge: perciò ci ha segnalato, contestualmente e inseparabilmente, il nostro “potere” ma anche il nostro limite. Siamo gli artefici del nostro sapere, ma proprio perché è soltanto il “nostro”: per dirla con Shakespeare, ci sono più cose in cielo e in terra di quanto ne contenga il nostro Io penso.
La prima domanda di Bruno era: «Nel pensiero l’eccessiva composizione può produrre decomposizione?». Forse influenzato dalla fatica di tenere a bada la mia tendenza caratteriale a “comporre” poco i miei pensieri, a procedere più intuitivamente che analiticamente, risponderei: «No di certo!». Quando rileggo i miei scritti molto spesso mi pento di averli poco meditati, poco argomentati, poco documentati. E allora vorrei ritrovarmi nel detto di Heidegger secondo cui ogni grande pensatore in fondo pensa, per tutta la vita, un solo pensiero. Ciò assodato, devo subito aggiungere che conosco molte persone che riflettono tanto su una questione da non arrivare mai a esporre una propria opinione. In questi casi non è in atto un approfondimento fruttuoso quanto uno sterile arrovellamento. Una cosa è la serietà di chi pondera, anche molto a lungo, i pro e i contra di una tesi; tutta un’altra cosa è l’orgoglio smisurato di chi si rode nell’insicurezza per il timore di essere confutato (e dunque finisce nell’evitare di pronunziarsi, sia pur ipoteticamente).
La seconda domanda di Bruno è strettamente legata alla prima: «Quale il rapporto della filosofia - in primis quella ‘pratica’ - con l’erudizione?». E’ una questione alla quale l’associazione “Phronesis” ha provato a rispondere con un intero volume a più mani, curato da Maria Luisa Martini, Filosofie nella consulenza filosofica (Liguori, Napoli 2013). Nel titolo del mio contributo ho sintetizzato ciò che molti di noi riteniamo in proposito: “C’è ma non si vede (specie se è di buona qualità)”. Il soggetto (sottinteso) della frase è l’erudizione o, meglio, la conoscenza dei testi fondamentali della storia della filosofia da Platone ai nostri contemporanei. A mio avviso ogni filosofo, dunque anche i filosofi-in-pratica, devono alimentarsi quotidianamente alla fonte dei grandi maestri: ma di queste conoscenze non devono fare bella mostra, devono tenerle per così dire nel proprio retroterra mentale. Decisiva non è la prontezza nel citare, in greco o in tedesco, la frase letterale, bensì la freschezza delle proprie intuizioni. Su questo aspetto, originariamente platonico, Giorgio Giacometti ha di recente scritto un intero volumone edito da Mimesis: Platone 2.0. La rinascita della filosofia come palestra di vita. Ma mi accorgo che ho già citato due testi in poche righe: troppi! Mi fermo per non cadere anch’io nell’eccesso di erudizione…
Con la terza domanda («Kant vedeva il soggetto, l’Io, come legislatore dei fenomeni. Tutto il potere al soggetto?») Bruno apre una questione talmente radicale da non potersi certo esaurire in poche battute. Suppongo che in questo nostro blog potrà essere ripresa più volte e in maniera più articolata. Dico solo che Kant ci ha ricordato di essere un filtro selettivo di ciò che ci circonda e ci raggiunge: perciò ci ha segnalato, contestualmente e inseparabilmente, il nostro “potere” ma anche il nostro limite. Siamo gli artefici del nostro sapere, ma proprio perché è soltanto il “nostro”: per dirla con Shakespeare, ci sono più cose in cielo e in terra di quanto ne contenga il nostro Io penso.
Augusto Cavadi
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