• Condiviso da Augusto Cavadi •
“Nel 1992 organizzai presso la UCLA un gruppo di ricerca interdipartimentale per studiare le connessioni tra la mente ed il cervello”. Presto però mi accorsi “che non c’era una visione condivisa della mente e nessun vocabolario condiviso per discuterne”: così Daniel Siegel in "Mindsight. La nuova scienza della trasformazione personale" (Raffaello Cortina Editore, Milano 2011).
Alla fine il gruppo interdisciplinare arrivò a condividere una definizione che era “un necessario punto di partenza dal quale iniziare la nostra esplorazione insieme”.
Ritengo che un problema simile siano chiamati ad affrontarlo quanti si propongano di agire per l’uomo e per la vita. Per restare nel mio ambito disciplinare (psichiatrico e psicoterapeutico), ritengo che, se arriva nella nostra stanza chiedendo un aiuto una persona depressa, sia più corretto considerare che abbiamo di fronte un uomo depresso, piuttosto che semplificare la situazione clinica trattando una entità(?) che è stata denominata 'depressione'. Ma se vogliamo veramente incontrare un uomo in concreto, non è forse necessario avere un’idea di chi sia l’uomo in generale?
Disponiamo forse di una definizione condivisa? Una definizione di uomo non la troviamo certo nella letteratura psichiatrica. Attualmente è quasi un obbligo nel lavoro clinico fare riferimento al DSM-5, un manuale che descrive in modo dettagliato i sintomi di ogni disturbo ed altri aspetti ritenuti utili ed oggettivabili, senza porsi altre domande.
Non trovando alcuna definizione di uomo nella letteratura psichiatrica a mia disposizione, ho pensato che potevo cercarla nel vocabolario della lingua italiana Treccani: “Uomo: essere cosciente e responsabile dei propri atti…”. Se essere “coscienti e responsabili” è un requisito necessario per definire l’uomo, quanti soggetti dobbiamo escludere? Tutti gli uomini sono coscienti e responsabili? E chi non ha queste qualità non è un uomo?
Secondo Siegel tuttavia non possiamo rinunciare a questo punto di partenza necessario per potere procedere oltre. E anche se non disponiamo di una definizione, possiamo utilizzare una descrizione delle sue qualità essenziali come punto di partenza. E vedere se le diverse idee sull’uomo ci portano verso modi diversi di vivere e di agire in questo mondo.
La concezione antropologica di E. Morin
Possiamo trovare un primo esempio in un pensiero di Edgard Morin: “L’essere umano è un essere ragionevole e irragionevole, capace di misura e dismisura; soggetto di una affettività intensa e instabile, sorride, ride, piange, ma sa anche conoscere oggettivamente; è un essere serio e calcolatore, ma anche ansioso, angosciato, gaudente, ebbro, estatico; è un essere di violenza e di tenerezza, di amore e di odio; è un essere pervaso dall’immaginario e che può riconoscere il reale; è un essere che conosce la morte e non può credervi, che secerne il mito e la magia, ma anche la scienza e la filosofia; è posseduto dagli Dei e dalle idee, ma dubita degli Dei e critica le idee; si nutre di conoscenze verificate, ma anche di illusioni e chimere”.*
Questa è l’antropologia (in senso filosofico) di Edgard Morin.
La concezione antropologica di C. Rogers
Un altro punto di vista sull’essere umano – frutto di osservazione e di ricerca in contesti psicoterapeutici sia duali che gruppali – ci viene proposto da Carl Rogers nel suo celebre "La terapia centrata sul cliente" (Giunti Editore, Firenze 2019): “Contrariamente a quei terapeuti che vedono la depravazione alla radice dell’uomo, che considerano i più profondi istinti dell’uomo come distruttivi, io ho scoperto che, quando è veramente libero di diventare ciò che egli è sul piano profondo, quando è libero di realizzare la propria natura come organismo umano e quindi capace di consapevolezza, allora egli appare chiaramente muoversi verso la totalità e l’integrazione (…), allora è degno della massima fiducia”.
Conseguenze pratiche delle diverse visioni dell’essere umano
Fra le tante descrizioni dell’uomo, è dunque possibile rintracciarne di molto diverse. Ma quali sono le conseguenze di queste differenti visioni? Come agiscono su di noi? Come influiscono sul nostro modo di agire nel mondo?
Per Morin la naturale conseguenza del riconoscimento della complessità è la riforma del pensiero. Prima di ogni altra cosa da fare, prima di agire dobbiamo riconoscere e superare la miopia, la visione settoriale con cui guardiamo alla vita. Se l’uomo e la sua azione nel mondo hanno il carattere della “complessità” (a volte anche della contraddittorietà) solo un pensiero complesso può consentirci di capire la realtà e di agire a favore della vita. Anzi, è proprio questa “riforma del pensiero” la missione più importante dell’intellettuale; più in generale è una méta che nel mondo contemporaneo si è resa necessaria. Dobbiamo riuscire a traghettare da un pensiero “settoriale”, spesso chiuso in se stesso, ad un pensiero “globale”, capace di abbracciare la molteplicità del reale: un pensiero che può consentirci di riconoscere fra tante altre realtà “la comunità del destino”, un’umanità che va guardata come un insieme unitario impegnato nella salvaguardia della vita su questo pianeta, senza negare le differenze e le specificità.
La proposta di Rogers ovviamente è molto differente. Se infatti, come viene da lui affermato, l’essere umano nella sua natura è potenzialmente degno della massima fiducia purché liberato dai condizionamenti acquisiti nel tempo, allora il compito di chi vuole aiutare un uomo nei più vari contesti (quindi non solo all’interno di un incontro psicoterapeutico) è di progettare e realizzare le condizioni che rendano possibile la sua liberazione. Tali condizioni – rivelatesi efficaci nell’esperienza psicoterapeutica – a suo parere necessarie e sufficienti per avviare e completare la liberazione dell’uomo, anche in contesti differenti, sarebbero tre: autenticità del facilitatore, accettazione incondizionata dell’altro, accurata empatia.
Mi sembra che queste due esemplificazioni (Morin e Rogers) ci mostrino come le diverse visioni antropologiche indichino percorsi e compiti differenti nel nostro rapporto col mondo.
Un’ultima riflessione: pur essendo visioni molto diverse, a me sembra che abbiano in comune il desiderio e l’impegno di portare un aiuto a questa umanità, oggi così gravata di incertezze e paure per un futuro che si profila catastrofico per l’intero pianeta e per la stessa specie Homo sapiens.
Daniel J. Siegel, psichiatra |
Ritengo che un problema simile siano chiamati ad affrontarlo quanti si propongano di agire per l’uomo e per la vita. Per restare nel mio ambito disciplinare (psichiatrico e psicoterapeutico), ritengo che, se arriva nella nostra stanza chiedendo un aiuto una persona depressa, sia più corretto considerare che abbiamo di fronte un uomo depresso, piuttosto che semplificare la situazione clinica trattando una entità(?) che è stata denominata 'depressione'. Ma se vogliamo veramente incontrare un uomo in concreto, non è forse necessario avere un’idea di chi sia l’uomo in generale?
Disponiamo forse di una definizione condivisa? Una definizione di uomo non la troviamo certo nella letteratura psichiatrica. Attualmente è quasi un obbligo nel lavoro clinico fare riferimento al DSM-5, un manuale che descrive in modo dettagliato i sintomi di ogni disturbo ed altri aspetti ritenuti utili ed oggettivabili, senza porsi altre domande.
Non trovando alcuna definizione di uomo nella letteratura psichiatrica a mia disposizione, ho pensato che potevo cercarla nel vocabolario della lingua italiana Treccani: “Uomo: essere cosciente e responsabile dei propri atti…”. Se essere “coscienti e responsabili” è un requisito necessario per definire l’uomo, quanti soggetti dobbiamo escludere? Tutti gli uomini sono coscienti e responsabili? E chi non ha queste qualità non è un uomo?
Secondo Siegel tuttavia non possiamo rinunciare a questo punto di partenza necessario per potere procedere oltre. E anche se non disponiamo di una definizione, possiamo utilizzare una descrizione delle sue qualità essenziali come punto di partenza. E vedere se le diverse idee sull’uomo ci portano verso modi diversi di vivere e di agire in questo mondo.
Edgar Morin, filosofo e sociologo |
Possiamo trovare un primo esempio in un pensiero di Edgard Morin: “L’essere umano è un essere ragionevole e irragionevole, capace di misura e dismisura; soggetto di una affettività intensa e instabile, sorride, ride, piange, ma sa anche conoscere oggettivamente; è un essere serio e calcolatore, ma anche ansioso, angosciato, gaudente, ebbro, estatico; è un essere di violenza e di tenerezza, di amore e di odio; è un essere pervaso dall’immaginario e che può riconoscere il reale; è un essere che conosce la morte e non può credervi, che secerne il mito e la magia, ma anche la scienza e la filosofia; è posseduto dagli Dei e dalle idee, ma dubita degli Dei e critica le idee; si nutre di conoscenze verificate, ma anche di illusioni e chimere”.*
Questa è l’antropologia (in senso filosofico) di Edgard Morin.
Carl Rogers, psicologo |
Un altro punto di vista sull’essere umano – frutto di osservazione e di ricerca in contesti psicoterapeutici sia duali che gruppali – ci viene proposto da Carl Rogers nel suo celebre "La terapia centrata sul cliente" (Giunti Editore, Firenze 2019): “Contrariamente a quei terapeuti che vedono la depravazione alla radice dell’uomo, che considerano i più profondi istinti dell’uomo come distruttivi, io ho scoperto che, quando è veramente libero di diventare ciò che egli è sul piano profondo, quando è libero di realizzare la propria natura come organismo umano e quindi capace di consapevolezza, allora egli appare chiaramente muoversi verso la totalità e l’integrazione (…), allora è degno della massima fiducia”.
Conseguenze pratiche delle diverse visioni dell’essere umano
Fra le tante descrizioni dell’uomo, è dunque possibile rintracciarne di molto diverse. Ma quali sono le conseguenze di queste differenti visioni? Come agiscono su di noi? Come influiscono sul nostro modo di agire nel mondo?
Per Morin la naturale conseguenza del riconoscimento della complessità è la riforma del pensiero. Prima di ogni altra cosa da fare, prima di agire dobbiamo riconoscere e superare la miopia, la visione settoriale con cui guardiamo alla vita. Se l’uomo e la sua azione nel mondo hanno il carattere della “complessità” (a volte anche della contraddittorietà) solo un pensiero complesso può consentirci di capire la realtà e di agire a favore della vita. Anzi, è proprio questa “riforma del pensiero” la missione più importante dell’intellettuale; più in generale è una méta che nel mondo contemporaneo si è resa necessaria. Dobbiamo riuscire a traghettare da un pensiero “settoriale”, spesso chiuso in se stesso, ad un pensiero “globale”, capace di abbracciare la molteplicità del reale: un pensiero che può consentirci di riconoscere fra tante altre realtà “la comunità del destino”, un’umanità che va guardata come un insieme unitario impegnato nella salvaguardia della vita su questo pianeta, senza negare le differenze e le specificità.
La proposta di Rogers ovviamente è molto differente. Se infatti, come viene da lui affermato, l’essere umano nella sua natura è potenzialmente degno della massima fiducia purché liberato dai condizionamenti acquisiti nel tempo, allora il compito di chi vuole aiutare un uomo nei più vari contesti (quindi non solo all’interno di un incontro psicoterapeutico) è di progettare e realizzare le condizioni che rendano possibile la sua liberazione. Tali condizioni – rivelatesi efficaci nell’esperienza psicoterapeutica – a suo parere necessarie e sufficienti per avviare e completare la liberazione dell’uomo, anche in contesti differenti, sarebbero tre: autenticità del facilitatore, accettazione incondizionata dell’altro, accurata empatia.
Mi sembra che queste due esemplificazioni (Morin e Rogers) ci mostrino come le diverse visioni antropologiche indichino percorsi e compiti differenti nel nostro rapporto col mondo.
Un’ultima riflessione: pur essendo visioni molto diverse, a me sembra che abbiano in comune il desiderio e l’impegno di portare un aiuto a questa umanità, oggi così gravata di incertezze e paure per un futuro che si profila catastrofico per l’intero pianeta e per la stessa specie Homo sapiens.
Mario Mulè
(*) E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Cortina, Milano 2001, pp. 60-61, cit. in A. Cavadi, Tremila anni di saggezza. La spiritualità nella storia della filosofia, Diogene Multimedia, Bologna 2020, p. 86.
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