MANUALE PER VIP
Rubrica a cura di Augusto Cavadi

Augusto Cavadi, Manuale per Vip
«Eh, no! Mi dispiace. Se vi siete incuriositi a questa nuova rubrica perché immaginate che parli di questo o quel Vip (dall'inglese "very important person"), rimarrete delusi. Niente pettegolezzi, indiscrezioni, dicerie: l'ottanta per cento della carta stampata e delle televisioni ne è già zeppa! Ho voluto scegliere questa sigla, invece, come abbreviazione di "Vivere in pienezza"...»
Dal post introduttivo ►
CENETTE FILOSOFICHE PER NON... FILOSOFI
(DI PROFESSIONE)
Rubrica a cura di Augusto Cavadi

Augusto Cavadi, Cenette Filosofiche
Nel 2003 alcuni partecipanti abituali alle “Vacanze filosofiche” estive¹, e residenti nella stessa città (Palermo), abbiamo esternato il desiderio di incontrarci anche nel corso dell’anno, tra un’estate e l’altra. Da qui l’idea di una cenetta quindicinale presso lo studio legale di uno di noi, Pietro Spalla, che si sarebbe incaricato di far trovare un po’ di prodotti da forno e qualche bevanda. Appuntamento alle ore 20:00 (in martedì alterni) per accogliersi a vicenda e mangiucchiare ciò che si trova sulla tavola: dalle 20:30 alle 22:00, poi, lo svolgimento dell’incontro.

La metodologia che abbiamo adottato è molto semplice: chiunque del gruppo propone un testo che si presti ad essere letto in chiave di filosofia-in-pratica (dunque non solo un classico del pensiero filosofico, ma anche un romanzo o un trattato di psicologia, un saggio di astrofisica o di botanica) e, se la maggioranza lo accetta, diventa nelle settimane successive il testo-base delle conversazioni. In esse non sono graditi gli approfondimenti eruditi (tipici dei seminari universitari) perché si vorrebbe dare spazio alle riflessioni personali, alle risonanze esistenziali e alle incidenze sociopolitiche, suggerite dal testo adottato. Uniche condizioni per la partecipazione: aver letto le pagine del libro che il gruppo si assegna di volta in volta per la riunione successiva (se non si fosse riusciti a farlo in tempo, si è pregati di assistere in silenzio) e intervenire evitando i toni polemici nei confronti dei presenti che abbiano espresso convinzioni, esperienze, ipotesi interpretative differenti dalle proprie².

La pandemia del Covid-19 ha costretto la piccola comunità di ricerca filosofica a sospendere gli incontri in presenza e a sostituirli con sessione in video-conferenza: certamente una riduzione della qualità delle relazioni fra i partecipanti, ma anche l’apertura di possibilità sino a quel momento inesplorate. Così amiche e amici di varie regioni italiane si sono collegati via internet e questa modalità di interazione ha finito col sostituire del tutto le cenette in presenza. Ci si vede direttamente alle 20:30 collegandosi mediante un link che Pietro Spalla trasmette a chiunque faccia richiesta di essere incluso nell’apposita mailing list (spalla.pietro@gmail.com).

La mailing list è diventata, sempre più, un luogo di scambi tra una cenetta e la successiva: scambi di opinioni, di commenti, di suggerimenti bibliografici, di battute umoristiche, di informazioni su eventi culturali... In questa molteplicità di interventi occasionali, non ne mancano alcuni meno estemporanei, di una certa consistenza e di un certo rilievo, che probabilmente meritano di non essere seppelliti nelle ondate di e-mail che si accavallano di giorno in giorno (talora di ora in ora).

Da qui l’idea di aprire in questo blog – www.filosofiaperlavita.it – un’apposita rubrica – “Cenette filosofiche per non... filosofi (di professione)” – che metta a disposizione, per un lasso di tempo più lungo e soprattutto per un pubblico potenzialmente più ampio, i contributi che i sostenitori finanziari della rubrica riterranno opportuno segnalare³.

Augusto Cavadi


¹ Cfr. https://vacanze.filosofiche.it
² Cfr. “Cenette filosofiche” in A. Cavadi, Mosaici di saggezze. Filosofia come nuova antichissima spiritualità, Diogene Multimedia, Bologna 2016, pp. 282-284.
³ Attualmente i rimborsi delle spese di gestione di questa rubrica sono sostenuti da Caccamo A., Cavadi A., Chiesa L., Cillari E., D’Angelo G., D’Asaro M., Di Falco R., Enia A., Federici G., Galanti M., Gulì A., Leone R., Oddo G., Palazzotto A., Paterni M., Randazzo N., Reddet C., Salvo C., Spalla P., Spalla V., Santagati G., Ugdulena G., Vergani B., Vindigni E. Chi desiderasse aggiungersi al numero dei sostenitori può contattarmi alla e-mail a.cavadi@libero.it

18 agosto 2025

Risveglio come intuizione di un 'logos' che è sempre e dappertutto*

• Augusto Cavadi •


Filosofia per la vita - Colaiacovo - Felicità
Noi, i dormienti
“Non bisogna agire e parlare come dormienti”: così, secondo Marco Aurelio, avrebbe sentenziato nel VI secolo a.C. il saggio Eraclito. Che significa in questo contesto muoversi come sonnambuli? Poiché di Eraclito abbiamo solo frammenti sparsi, ogni risposta non può che essere ipotetica. Tuttavia, nel complesso, il significato mi pare abbastanza decifrabile. Infatti, in un altro frammento, leggiamo: “Per quelli che son desti c’è un unico e comune cosmo; ma ciascuno di quelli che dormono si volgono al proprio”.

Come è stato notato, questa considerazione ha “certamente prima di tutto un significato puramente psicologico: tutti quelli che sono desti accettano l’esistenza di una realtà fisica uguale per tutti ed in essa operano secondo criteri corrispondenti perché considerano uguale per tutti la sua struttura; nel sonno, invece, ciascuno vive in un illusorio mondo strettamente personale, la cui struttura è frutto della sua personalissima attività immaginativa.
Naturalmente, questa considerazione appare chiaramente, nel complesso dei frammenti, solo come il punto di partenza di una riflessione più profonda: i desti sono coloro che intendono il logos (...), i dormienti sono invece gli uomini della folla che rimangono legati all’individualità della conoscenza sensibile”¹.

Il Logos (o il Dao o l’Atman)
Ma cos’è questo logos il cui apprendimento separa i sapienti dagli ‘idioti’, cioè da coloro che si concentrano sul “proprio” (idion) e non accedono a un punto di vista complessivo, tendenzialmente universale? E’ la Trama intelligibile di tutto ciò che esiste, il Principio assoluto che lega (leghein) insieme la molteplicità degli opposti. L’intelligente, spiega altrove Eraclito, non è colui che ha appreso molte nozioni, ma chi – spezzando il guscio della propria individualità limitata – accede a “ciò che è a tutti comune” (fr. B 114), alla Legge divina che tiene insieme il cosmo. Senza leggi condivise una città crollerebbe, ma “tutte le leggi umane sono alimentate da quell’unica divina: infatti questa domina quanto vuole, basta a tutto e sopravanza” (ivi).

Molte affinità con il Logos greco di matrice eraclitea si possono rintracciare nel Dao (o, secondo una translitterazione oggi superata, Tao). Il termine è polisemico (“via, strada, principio, metodo, dire…”) e viene ritenuto dagli stessi taoisti “indefinibile”². Interessante notare che viene considerato “incommensurabile, infinito, immenso”, “principio trascendente e immanente dell’universo, anteriore alla creazione di questo, presente dovunque sotto molteplici aspetti secondo un processo spontaneo di continuo ritorno alle origini. Tutto deriva dal Dao e tutto ritorna ad esso”. Anche in questo scenario, saggio è colui che “si adegua a questo ciclo, si conforma al ritmo dell’universo senza contrastarlo, senza interferire, senza agire” (ivi).

Anche nella tradizione sapienziale induista fluisce, di generazione in generazione, l’aspirazione a qualcosa di molto simile al Logos greco e al Dao: “L’Atman cercavo, Brahma cercavo, e volevo smembrare e scortecciare il mio Io, per trovare nella sua sconosciuta profondità il nocciolo di tutte le cortecce, l’Atman, la vita, il divino, l’assoluto"³.

E’ difficile non ammettere inoltre l’affinità del logos eracliteo con il logos dei primi versetti del vangelo secondo Giovanni: “In principio il Logos era; il Logos era alla presenza di Dio, e il Logos era Dio. Esso era presente con Dio in principio. Per mezzo di lui ebbero origine tutte le cose e senza la sua presenza nessuna cosa ebbe origine. Ciò che aveva avuto origine in lui era vita, e questa era la luce degli uomini. La luce risplende nelle tenebre, perché le tenebre non la vinsero. (...) Esso era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo riconobbe” (I, 1- 8; 10). Qui – chiosava il cardinal Martini – il Verbo è “il logos delle cose, cioè la ragione ultima d’essere della realtà”: nel mondo fisico e nella storia umana “tutto ha un significato nella sapienza ordinatrice di Dio”, “tutto ha un senso, e questo senso è luminoso e vivificante”.

Il Logos – inscindibilmente pensiero e parola e azione divini – è potenzialmente accessibile a ogni essere umano, ma pochi lo riconoscono (persino quando trapela nelle pieghe della storia dell’uomo mortale – “carne” – Gesù).

Risvegliarsi: in che senso?
Se non erro, dalla breve comparazione di queste differenti prospettive (greca, taoista, induista, cristiana, ma l’elenco sarebbe più lungo), si ricava che l’esperienza del risveglio è un’esperienza complessa e complessiva. Infatti è un’esperienza ‘intellettuale’ non nel senso riduttivo di ‘razionale’, bensì apicale di ‘intuitivo’: per quanto possa trarre giovamento dalla riflessione argomentativa, in se stessa la trascende. E, trascendendo – senza rinnegarlo – il piano della logica, coinvolge le profondità radicali del nostro io: quel ‘cuore’ che è la radice da cui si dipartono impulsi, passioni, sentimenti, volontà...

Ciò che mi preme sottolineare è che – se queste notazioni sono fondate – si può parlare del risveglio come di un’esperienza mistica: a patto che questo termine non si intenda come sinonimo di ‘psicologica’, ‘intimistica’, ‘soggettiva’. Il ‘risvegliato’ avrà pure avvertito il vantaggio di chiudere gli occhi, di liberare la mente dalle occupazioni e dalle preoccupazioni che l’affollano; ma, alla fin fine, per aprirli più ampiamente e per guardare dentro e fuori di sé con più penetrazione. Ci può aiutare il capitolo del citato Siddharta in cui H. Hesse evidenzia la necessità di bilanciare la necessaria cura dell’interiorità con l’altrettanto necessaria apertura all’oggettività cosmica: “Il risvegliato” intuisce che “l’uno e il divino” “vivevano nascosti” tanto nella varietà del mondo naturale quanto in Siddharta stesso poiché tali erano “appunto la natura e il senso del divino, d’esser qui giallo, là azzurro, là cielo, là bosco e qui Siddharta. Il senso e l’essenza delle cose non erano in qualche cosa oltre e dietro loro, ma nelle cose stesse, in tutto”.

Il bivio radicale di noi contemporanei
A questa prospettiva millenaria, attestata in sapienze sparse sul pianeta, si è opposta radicalmente la prospettiva nichilistica (intendendo il termine nichilismo non in senso sociologico o politico, ma ontologico). Già nel mondo greco, secondo un’interpretazione legittima, Gorgia nega frontalmente che principio (arché) dell’intera realtà sia un elemento sensato, addirittura un Senso (Logos) fontale: “Nulla è, ma - anche se qualcosa fosse - sarebbe inintelligibile”.

Però è solo con la più recente Modernità occidentale che questa prospettiva nichilistica assume un profilo netto, inequivoco e letterariamente efficace. Già con Nietzsche: “la parodia più seria che io abbia mai sentita è questa: ‘In principio era l’Assurdo, e l’Assurdo era, la cospetto di Dio, e Dio (divino) era l’Assurdo’”. Sartre s’incarica, mezzo secolo dopo, di esplicitare e tradurre in termini ancora più accessibili: “Vorrei fissare il carattere assoluto di quest’assurdità. Un gesto, un avvenimento nel piccolo mondo colorito degli uomini non è mai assurdo che relativamente: in rapporto alle circostanze che l’accompagnano. I discorsi di un pazzo, per esempio, sono assurdi in rapporto alla situazione in cui si trova, ma non in rapporto al suo delirio. Ma io, poco fa, ho fatto l’esperienza dell’assoluto: l’assoluto o l’assurdo”⁹.

Siamo dunque di fronte al bivio più radicale che, a mio avviso, si sia profilato nella storia delle civiltà: o l’Intero nasconde una filigrana di senso (che qualche volta riluce in un paesaggio, in un’opera d’arte, in un gesto etico, in un’intuizione intellettuale) oppure è intrinsecamente inintelligibile (la massa gelatinosa, viscida, insensata, nauseante di Sartre). L’opzione per l’una o l’altra prospettiva segna una differenza fra gli esseri umani che solo approssimativamente possiamo etichettare come differenza tra ‘credenti’ e ‘atei’: da una parte chi è convinto, anche senza averne consapevolezza, che ens et verum convertuntur (= chi dice ente dice intelligibilità potenziale, non necessariamente colta o coglibile dal genere umano); dall’altra chi è convinto che ens et absurdum convertuntur (e che dunque non ci sia alcun Logos, alcun Tao, alcun Atman, Senso da cercare ed eventualmente a cui affidarsi).

Sottolineo che questa divaricazione antropologica può solo approssimativamente sovrapporsi alla differenza fra ‘credenti’ e ‘atei’: infatti nella prima schiera troviamo persone atee, o agnostiche, che cercano di decifrare l’enigma della realtà animate da una “fede razionale” e indisponibili a qualificare ‘divino’ l’oggetto della loro ricerca; così come, nella seconda schiera, troviamo persone che frequentano con costanza le celebrazioni religiose proprio per esorcizzare la disperazione di chi – convinto dell’insensatezza ontologica universale – avverte la tentazione del suicidio, fisico o psichico.

Aggiungerei che si tratta di posizioni ideal-tipiche che difficilmente vengono incarnate con continuità da ognuno di noi: è più probabile, infatti, che alterniamo giornate di confidenza nella Trama dell’Intero a giornate di rassegnazione a recitare una parte insignificante in un teatro di mere parvenze. Ma l’opzione fra l’una e l’altra prospettiva non è una pura opzione umorale (o, nel migliore dei casi, sentimentale): è anche teoreticamente supportabile sulla base di argomentazioni razionali (o, per lo meno, ragionevoli). Questa fatica argomentativa va oltre le possibilità dell’uomo e della donna che, del tutto legittimamente e anzi lodevolmente, hanno scelto di dedicarsi a mestieri differenti dal filosofo ‘professionale’.


Augusto Cavadi


(*) Pubblico qui il ‘succo’ di un intervento a braccio, il 12 ottobre 2023, presso la “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo, nel corso della presentazione (con il curatore Paolo Scquizzato e i co-autori Silvia Papi e Federico Battistutta) il volume di AA.VV., Del male, di Dio e del nostro amore. Ventuno dialoghi e un saggio, Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2023.
¹ G. Gilardoni, commento al frammento B 89 in Eraclito, Tutti frammenti, Le Monnier, Firenze 1967, p. 46.
² G. Bertuccioli, Il taoismo in AA.VV., Storia delle religioni. Cina – Estremo Oriente, La Biblioteca di Repubblica, Roma s.d., p. 446.
³ H. Hesse, Siddharta, Adelphi, Milano 1975, p. 60.
C. M. Martini, Il vangelo secondo Giovanni nell’esperienza degli esercizi spirituali, Borla, Roma 1981, p. 26.
Ivi, p. 28.
Ivi, pp. 28–29.
H. Hesse, Siddharta, cit., p. 61.
F. Nietzsche, Umano, troppo umano, Adelphi, Milano 1981, vol. II, p. 187 (con ritocchi ortografici).
J. P. Sartre, La nausea, Mondadori, Milano 1965, p. 184.
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22 luglio 2025

"Non filosofi di professione", ritrovo ad Agnone (Molise) dal 19 Agosto 2025

• Augusto Cavadi •


Filosofia per la vita - Agnone - Agosto 2025
Come ha egregiamente sottolineato nei suoi libri Pierre Hadot, la filosofia è nata non come disciplina teorica, ma come modo di vivere. Solo dal tardo Medioevo in poi si è andata configurando la nuova identità del filosofo: non più un certo tipo di uomo, ma un certo tipo di professore.
Ovviamente il prevalere della figura del professore (per lo più storico della filosofia e attento commentatore di testi ‘classici’) non ha comportato la scomparsa totale del filosofo che (per dirla con Emmanuel Mounier) non sa più se pensa la sua vita o vive il suo pensiero: detto più semplicemente, per il quale la filosofia è “saper vivere”. Giganti del pensiero moderno e contemporaneo – da Spinoza a Kant, da Feurbach a Marx, da Kierkegaard a Wittgenstein – lo hanno testimoniato ciascuno a suo modo, ma tutti con toccante intensità.

Da 28 anni, grazie al supporto organizzativo del Gruppo Editoriale Di Girolamo - Il pozzo di Giacobbe, con varie persone amiche, in giro per l’Italia, abbiamo provato a risuscitare questa interpretazione ‘esistenziale’ (in senso ampio) della filosofia, nella forma che riteniamo più congeniale: non eremitica (del monaco solitario), ma cenobitica (comunitaria). Con un pizzico di esagerazione: abbiamo provato a vivere per una settimana come vorremmo che fosse la società per il resto dell’anno. Dunque in un clima di serenità, cooperazione nella ricerca, curiosità per i punti di vista differenti dal proprio (anche quando, anzi soprattutto quando, sono molto differenti), attenzione per le necessità altrui, sobrietà nell’uso dei beni materiali, rispetto per tutti gli esseri viventi (soprattutto senzienti)...

Dal momento che, in misura minore o maggiore, negli anni precedenti abbiamo raggiunto questo obiettivo abbastanza ambizioso, contiamo di raggiungerlo anche quest’anno in cui la tematica generale è particolarmente incoraggiante: in una delle fasi più drammatiche del pianeta dalla fine della Seconda guerra mondiale, il tema del riso e del sorriso (in tutte le valenze dall’umorismo all’ironia). Il titolo prescelto per questa edizione (dal 19 al 25 agosto 2025 nell’Alto Molise: per i dettagli logistici visitare il sito www.vacanze.filosofiche.it) è tratto Michel Foucault: “Un riso filosofico, cioè, in parte, silenzioso”. Un’espressione che, al di là di ciò che l’autore ha voluto effettivamente dire nel contesto del suo Le parole e le cose, ci ha attratto per la sua enigmaticità che la apre a varie interpretazioni. A me, ad esempio, suggerisce l’idea che il filosofo non è un musone scontroso, ma neppure un ridanciano superficiale. Pur cercando di cogliere gli aspetti lievi, persino divertenti, della vita, difficilmente riesce ad azzerare quel sottofondo malinconico dovuto alla consapevolezza della dimensione tragica delle biografie individuali e della storia complessiva.

Con puntualità giapponese, i seminari si svolgeranno in varie sedi del Comune di Agnone (dopo un primo incontro informale successivo alla cena del 19 agosto) dalle 9 alle 10,30 del mattino e dalle 18,15 alle 19,45 della sera secondo un calendario che – a grandi linee – prevede i seguenti argomenti: lo sguardo delle neuroscienze e della psicoterapia sull’homo ridens; l’ironia socratica e la satira di Orazio; l’ironia di Leopardi e l’umorismo in Pirandello; la filosofia dell’ironia in Bergson e Jankelevitch; la pedagogia del sorriso; l’umorismo ebraico dalla Bibbia a Woody Allen. La mattina dell’ultimo giorno (il 26 agosto) sarà dedicata, secondo tradizione, a una agorà conclusiva per un bilancio collettivo della settimana.

I seminari di filosofia per laureati in filosofia, o comunque esperti del settore, non mancano certo tutto l’anno in tutto il Paese. Per questo le nostre settimane filosofiche sono destinate, in primis, a persone che nella vita professionale si occupano di altro, ma che almeno ogni tanto vogliono regalarsi una pausa di raccoglimento, riflessione, confronto amichevole su alcune questioni centrali dell’esperienza umana. E in assetto non ‘scolastico’, tipico della lezione, bensì circolare, o cenacolare, della conversazione in cui ognuno ha qualcosa da sottoporre al vaglio dei partecipanti e tutti hanno, comunque, qualcosa di nuovo da apprendere (fosse anche solo il modo – unico e irripetibile – in cui una determinata idea si è incarnata nella storia dell’altro).

Augusto Cavadi


La versione originale, corredata da foto, è consultabile cliccando QUI.
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17 giugno 2025

Palestina: dire «Basta!», ma come?

• Augusto Cavadi •


Filosofia per la vita - Palestina
Che in Palestina, dopo il 7 ottobre 2023, sia in atto una strage ingiustificabile è evidente.
Che le persone oneste vogliano far di tutto per interromperla al più presto è comprensibile.
Tutte le iniziative mirate a questo scopo sacrosanto sono ugualmente efficaci? A mio sommesso avviso, no.
Ce ne sono di utili (più o meno) e di controproducenti (più o meno). Per distinguere le prime dalle seconde è necessaria qualche premessa.

Due premesse
(a) Il conflitto terroristico in corso non riguarda 2 popoli (ebraico e palestinese) ma 2 governi più o meno legittimi (Netanyahu e Hamas): si può essere solidali con gli ebrei e avversari del governo in carica, si può essere solidali con i palestinesi e avversari del governo in carica.
(b) Quando due soggetti litigano in maniera feroce (ancor più se c’è un’evidente sproporzione di forze), se il terzo osservatore ha la forza per interrompere la strage deve farlo immediatamente: salvare vite umane è la priorità assoluta. Come ipotesi esemplificativa, Gandhi stesso ammetteva che – se davvero non ci sono alternative – un omone che picchia a morte una ragazzina va bloccato anche con le armi. Aggiungeva che restare inerti a guardare “come va a finire”, è molto peggio che intervenire con la forza fisica.
(c) L’obiettivo ultimo dell’eventuale “terzo” in campo dev’essere comunque la ‘conversione’ (per ragioni o etiche o politiche o di mera convenienza utilitaristica) dei due soggetti in conflitto affinché la tregua immediata preceda una pace duratura perché giusta.

Che fare?
Ciò premesso, cosa fare in concreto?
(a) Se il “terzo” avesse la possibilità di pressare un bottone e distruggere i 2 ESERCITI in guerra, dovrebbe farlo senza distinguere “terrorismo” da “terrore di Stato” (senza stabilire livelli di criminalità o addirittura dando ad alcuni la patente di eroici partigiani o ad altri di intemerati patrioti).
(b) Se il “terzo” avesse la possibilità di pressare un bottone e distruggere i 2 POPOLI in guerra (o anche uno solo: oggi suppongo gli ebrei), non dovrebbe farlo perché sarebbe ingiusto e – in prospettiva – controproducente: “occhio per occhio rende il mondo cieco” (Gandhi).
(c) Poiché non esiste nessun “bottone” per distruggere i 2 ESERCITI in guerra, come DISARMARLI al più presto? Agendo per condizionare (se non è realistico scalzarli in tempi brevi):
• i governi in guerra
• i governi che li sostengono, finanziano, armano (ad esempio gli Stati Uniti d’America e i Paesi dell’Unione Europea che vedono Israele come avamposto dei loro interessi strategico-militari ed economici ai confini con i Paesi arabi a maggioranza musulmana; l’Iran che vede in Hamas il braccio armato del suo anti-sionismo)
(d) Al fine di condizionare i governi in guerra (Hamas e Netanyahu) bisogna ridurre al minimo i rispettivi consensi elettorali (quali che fossero al momento della loro elezione)lavorando sull’opinione pubblica palestinese e israeliana. Più precisamente:
• sostenendo con tutti i mezzi (anche finanziari) le opposizioni interne
• sostenendo in particolare i circoli e i movimenti (che già esistono!) nonviolenti che, a costo di processi e pene estreme, esercitano l’obiezione di coscienza sia rispetto al reclutamento dello Stato d’Israele sia rispetto al reclutamento di Hamas
• rivolgendosi a quelle maggioranze silenziose e impaurite (sia in Israele che in Palestina) che, poste dai rispettivi governi di fronte al falso aut-aut (o la resa o la distruzione del nemico in armi), restano paralizzate o propendono per la distruzione totale del nemico.

Le manifestazioni, i cortei, i concerti, le catene di digiuno, le veglie di preghiera, le fiaccolate, i sabotaggi di industrie e di navi…possono davvero convincere i palestinesi a “liberarsi” da Hamas e i cittadini israeliani a liberarsi da Netanyahu? E possono convincere gli italiani, gli europei, gli statunitensi a “liberarsi” dai propri stessi governi che dal 1948 a oggi hanno unilateralmente appoggiato Israele? A mio avviso, sino a quando saranno manifestazioni ‘totalitarie’ (a favore o contro tutta la Palestina, senza distinguere il popolo palestinese dai criminali terroristi di Hamas e a favore o contro tutto Israele, senza distinguere tra il popolo ebraico dai criminali che esercitano il terrore di Stato agli ordini dei partiti al potere) e ‘unilaterali’ (condividendo TUTTE le ragioni di una parte e negando TUTTE le ragioni dell’altra parte) le possibilità di scuotere le coscienze, di alterare gli attuali schieramenti parlamentari, di incidere nelle decisioni politiche che contano, sono vicine allo zero. L’opinione pubblica mondiale può risultare condizionante (sull’elettorato e sui governi dei Paesi in guerra) nella misura in cui riesce a comunicare l’equidistanza dai governi e l’equivicinanza ai popoli (anche se, in altre fasi, questi abbiano potuto contribuire con il voto o con l’astensione all’avvento al potere dei rispettivi governi).

Conclusione (parziale e provvisoria)
Agli storici del futuro il compito di ricostruire la storia medio-orientale degli ultimi 70 anni. A noi, qui ed ora, interessa che la maggior parte dei Paesi tolga immediatamente i rifornimenti militari al governo israeliano e ad Hamas, inviando almeno “caschi blu” dell’ONU (in attesa che si formino battaglioni disarmati di “caschi bianchi”); ma nessuno di essi lo farà se non costretto da una base elettorale quanto più compatta possibile. In democrazia (per quanto imperfetta e inquinata) la compattezza si raggiunge con la propaganda convincente (ad esempio spiegando che oggi i sionisti al governo dello Stato d’Israele stanno danneggiando la causa degli ebrei più di quanto siano riusciti decenni di anti-semitismo), non con le urla (per quanto sincere e comprensibili) delle opposte tifoserie. Se le manifestazioni, da sole, potessero cambiare le decisioni politiche, passerei da una manifestazione all’altra senza tornare a casa neppure la notte per dormire. Ma penso che la strategia efficace, senza scorciatoie, consista nel moltiplicare i luoghi del confronto ragionevole, documentato e pacato per tentare di convincere i sostenitori dei governi filo-israeliani (dunque quasi tutti i governi occidentali, compreso l’italiano) a minacciare di togliere il consenso elettorale se perseverano nella politica attuale.


Augusto Cavadi
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19 maggio 2025

Un dubbio sull'omelia d'insediamento di Papa Leone XIV

• Augusto Cavadi •


Filosofia per la vita - Papa Leone XIV
La mia è una richiesta di aiuto a capire, una richiesta né retorica né ancor meno polemica. Nella bella omelia di domenica 18 maggio, durante la messa di insediamento, papa Leone XIII ha detto (leggendo un testo scritto reperibile in internet): «Noi vogliamo dire al mondo, con umiltà e con gioia: guardate a Cristo! Avvicinatevi a Lui! Accogliete la sua Parola che illumina e consola! Ascoltate la sua proposta di amore per diventare la sua unica famiglia: nell’unico Cristo noi siamo uno. E questa è la strada da fare insieme, tra di noi ma anche con le Chiese cristiane sorelle, con coloro che percorrono altri cammini religiosi, con chi coltiva l’inquietudine della ricerca di Dio, con tutte le donne e gli uomini di buona volontà, per costruire un mondo nuovo in cui regni la pace».
Mi pare che, secondo la logica più elementare, questo passaggio sia contraddittorio: è davvero così o mi sbaglio clamorosamente?
Se si fosse limitato ad invitare l’umanità ad accogliere la “proposta di amore” (gratuito, disinteressato, “agapico”) che promana (anche, non soltanto!) dal Gesù dei vangeli, l’avrei trovato legittimo, anzi incoraggiante. Se l’avesse esortata a diventare un’unica grande famiglia, sarebbe stato un appello inappuntabile.
Ma egli ha specificato: “Ascoltate la sua proposta di amore per diventare la sua unica famiglia: nell’unico Cristo noi siamo uno”. Ora questo invito papa Prevost lo ha rivolto non solo alle persone che si dicono cattoliche o, comunque, appartengono “a Chiese cristiane sorelle”, ma anche a “coloro che percorrono altri cammini religiosi” o coltivano “l’inquietudine della ricerca di Dio” o vivono, senza inquietudine, la strada della “buona volontà”.
Mi chiedo dunque: ha inteso invitare anche chi cristiano non è ad aderire all’unico Cristo e a diventare membro della sua grande famiglia? L’ebreo o il musulmano, l’agnostico o l’ateo, pur se adesso battono sentieri di giustizia e di servizio, sono esortati a convertirsi alla proposta evangelica ed ecclesiale? Mi sembrerebbe davvero improbabile! Ma, se questa interpretazione – la più immediata, la più evidente – non è corretta, quale sarebbe invece la più fedele all’intenzione papale? Qualcuno – lo chiedo senza ironia – può aiutarmi a capire?


Augusto Cavadi
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9 maggio 2025

"XXVIII Settimana Filosofica per... non filosofi" - Agnone (Isernia), 19-25 Agosto 2025

• Augusto Cavadi •

Agnone

• INVITO •

Anche questa estate, come ogni anno dal 1998,
il gruppo editoriale "Il pozzo di Giacobbe" - "Di Girolamo" di Trapani

organizza la

XXVIII SETTIMANA FILOSOFICA PER... NON FILOSOFI
(di professione)

Per chi: Destinatari della proposta non sono professionisti della filosofia ma tutti coloro che desiderano coniugare i propri interessi intellettuali con una rilassante permanenza in uno dei luoghi tra i più gradevoli del Bel Paese, cogliendo l’occasione di riflettere criticamente su alcuni temi di grande rilevanza teorica ed esistenziale.

Dove e quando: Sede prescelta per l'edizione 2025 è Agnone (nell’Alto Molise), dalla cena del 19 agosto al pranzo del 25.


Su che tema:

"Un riso filosofico, dunque almeno in parte silenzioso"

Il titolo, tratto da M. Foucault, allude alla tematica intorno a cui saranno imperniati i 12 incontri: l’umorismo e l’ironia come strategie di auto-difesa rispetto alle crudeltà della vita e della storia.

I seminari sanno introdotti, a turno, da Massimo Paterni (area neuroscientifica), Augusto Cavadi e Salvatore Fricano (area filosofica e teologica), Maria Concetta Di Spigno e Tina Di Genova (area letteraria), Adriana Saieva (area pedagogica).



Per tutte le informazioni sia metodologiche che organizzative tecniche visitare il sito: https://vacanze.filosofiche.it
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20 marzo 2025

Utopia e realismo politico, Orlando Franceschelli

• Augusto Cavadi •


Filosofia per la vita - Orlando Franceschelli
Segue in video l'intervento del Prof. Orlando Franceschelli al Convegno "Have I a Dream? Le possibilità dell'utopia oggi" tenutosi a Roma il 14/11/2024 presso la Sala Capitolare del Senato della Repubblica, in occasione della Giornata Mondiale della Filosofia.

Orlando Franceschelli, utopia e realismo politico

Augusto Cavadi
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17 marzo 2025

Elogio del dubbio

• Anna Colaiacovo •


Filosofia per la vita - Anna Colaiacovo - Il dubbio
La parola ‘dubbio’ (lat. dubius) riguarda la non definitività delle nostre idee. Se ne comprende il significato già a partire dalla etimologia che la fa risalire a duo, ‘due’. Negli umani, di solito, e tra i filosofi in particolare, quando qualcosa è presentata come verità, genera dubbi. Ed è naturale che li generi. Del resto non dobbiamo dimenticare il Salmo 62 versetto 12 della Bibbia: Una parola ha detto l’Eterno, due ne abbiamo udite.

La parola ‘verità’ deriva dal latino veritas. Con questo termine i Romani traducevano il greco aletheia. I due termini, però, non hanno lo stesso significato. Veritas è conformità a determinati principi e rimanda a qualcosa da accettare potremmo dire ‘per fede’ (non a caso l’anello nuziale è chiamato anche ‘vera’ oltre che ‘fede’). Aletheia, invece, significa disvelamento (ά-λήϑɛια: lo stato del non essere nascosto). La verità viene rivelata nel senso che le viene tolto il velo e per un attimo riluce, ma poiché la natura ama nascondersi (Eraclito) il percorso di conoscenza è senza fine.

Perché un elogio del dubbio? Perché la democrazia è il terreno del dubbio, è l’arte del dialogo contro il dispotismo della verità unica. Non si tratta qui del dubbio scettico, per cui la verità non esiste ed è quindi inutile cercarla, ma dell’atteggiamento nei confronti della verità egregiamente definito, nell’ambito della storiografia (ma estensibile al campo socio-politico), da Luciano Canfora: La verità è come la linea dell’orizzonte che si allontana man mano che cerchi di raggiungerla, ma non per questo devi smettere di cercarla. La ricerca è faticosa, richiede documentazione, esperienza, confronto di testi e confronto di opinioni.

I linguisti denunciano da qualche decennio la crisi del congiuntivo a favore dell’uso dell’indicativo. È un fenomeno che riguarda certamente l’impoverimento del linguaggio, ma non solo. Indica anche la crisi del dubbio. Il congiuntivo è il modo del verbo con cui si esprimono dubbi, incertezze, possibilità o desideri. Il suo uso segnala, nel confronto con l’altro, la capacità di mettersi in discussione, l’umiltà di riconoscere la relatività delle proprie opinioni. Aspetti essenziali in una realtà democratica.

Nell’arco di una generazione, il nostro modo di informarci e di comunicare è stato totalmente modificato dalle reti digitali. Internet ha consentito l’accesso a una quantità straordinaria di informazioni e ha permesso una comunicazione senza vincoli spazio-temporali, al punto da essere considerata sinonimo di libertà. Oggi non ne siamo più così sicuri. Preoccupa l’enorme concentrazione di potere e di risorse economiche nelle mani di oligarchie tecnologiche capaci di controllare l’economia e la politica globale. Un potere che sta mettendo in crisi il sistema di regole e controlli su cui si basano le democrazie liberali. Le fake news dilagano, assistiamo a vere e proprie campagne di manipolazione delle informazioni che puntano al condizionamento sociale. E tutto questo in nome dell’innovazione e della libertà (di consumo per massimizzare i profitti).

Si va accentuando una tendenza già presente nel passato, ma che ora è espressa con particolare forza sui social: assumere una posizione su una determinata questione e portarla avanti senza incertezze o ripensamenti, con la complicità di algoritmi che uniscono il simile con il simile, nel senso che l’interazione avviene prevalentemente con utenti che condividono le stesse opinioni. Si crea in tal modo un effetto molto pericoloso, una polarizzazione tra i cittadini rinchiusi nelle ‘echo chambers’ (camere dell’eco) all’interno delle quali è difficile trovare un punto di vista diverso. È una polarizzazione che rassicura, ma chiude. Ognuno reitera la propria posizione, portando a supporto della stessa anche argomenti, ma evitando accuratamente di rispondere alle obiezioni e così riceve cori di ammirazione dagli amici e qualche insulto dai nemici. Allo stesso modo funzionano ormai i ‘dibattiti’ televisivi che diventano pretesti per dileggiare o offendere l’avversario. Del contenuto interessa assai poco, contano invece l’abilità e l’appello alle emozioni. In rete e soprattutto sui social media colpisce di più ciò che è gridato, esibito con forza, rispetto a ciò che è solo vero.

Se abbiamo a cuore la democrazia, dobbiamo affrontare questi problemi ora, perché, come ha detto Justin Rosenstein, ex di Google e Facebook, creatore poi pentito del ‘like’, “potremmo essere l’ultima generazione in grado di ricordare com’era la vita prima della rivoluzione digitale”.


Anna Colaiacovo


In apertura: illustrazione di René Milot
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25 gennaio 2025

Il ri-sentimento come problema sociale

• Anna Colaiacovo •


Filosofia per la vita - Augusto Cavadi sulla creatività
Il risentimento è, oggi, molto diffuso. Per questo è importante analizzarlo, per comprendere il nostro tempo.

Che cos’è il risentimento? È una reazione emotiva che conosciamo tutti, perché a tutti accade di provarla. Nasce dal confronto con l’altro, da un torto subito o che pensiamo di subire. È una specie di rabbia invidiosa che deriva dalla mancanza di qualcosa che si presume di avere il diritto di avere (e che l’altro ha) e dalla propria incapacità di fare qualcosa per averla. Si fonda, infatti, su una percezione di impotenza. Ma, mentre l’invidia può portare ad una reazione costruttiva cioè all’emulazione dell’altra persona, il risentimento porta alla repressione dei sentimenti negativi che si provano (come l’odio, la cattiveria, la malignità), con il risultato che non si reagisce. Da qui la sensazione di impotenza, di inadeguatezza e uno stato di sofferenza a cui ha dato parole Max Scheler, grande fenomenologo tedesco: “il risentimento è un auto avvelenamento dell’anima”.

Come problema sociale, il risentimento è poco presente nelle società organizzate in modo gerarchico in cui ognuno ha un ruolo pre-definito e in cui prevale l’accettazione della propria condizione di vita. Si sviluppa invece nelle società egualitarie dal punto di vista formale, ma in cui, di fatto, esistono enormi differenze tra i cittadini sul piano del potere e della ricchezza. Aumenta, in modo particolare, quando l’ascensore sociale si blocca e una parte consistente della popolazione diventa sempre più povera o comunque perde il proprio status, mentre altri strati sociali avanzano. In questo caso diventa difficile la convivenza dell’idea dell’eguaglianza dei diritti con i principi del liberismo economico, soprattutto in presenza di guerre che assorbono risorse. È quello che è accaduto in Europa negli anni Venti e Trenta del secolo scorso ed è quello che sta accadendo in Occidente nei nostri giorni. Da sottolineare, inoltre, il fatto che il senso di frustrazione e avvilimento che prova chi è alla ricerca di un lavoro, o chi è insoddisfatto perché ha un lavoro precario e sottopagato, non è in grado di produrre, nel nostro tempo, un’azione collettiva. Perché? Perché viviamo in una società individualizzata permeata da una ideologia della privatizzazione. Riteniamo che tutto ciò che accade ai singoli sia responsabilità degli individui stessi e non riuscire a realizzare i propri obiettivi, mentre altri ci riescono, si deve al fatto che non c’è stato un impegno adeguato o non si è stati capaci di fare le scelte giuste. Diventa impossibile scaricare la propria rabbia su un altro soggetto, sia perché è difficile identificarlo, sia perché diventerebbe una ammissione di inadeguatezza. La rabbia però c’è, anche se non viene espressa, e diventa risentimento.

Una caratteristica dei soggetti colpiti dal risentimento è l’auto-vittimizzazione. Gli altri hanno qualcosa che io non ho e che loro non meritano e questo mi fa soffrire: “io sto male, qualcuno deve pur essere responsabile” (Nietzsche). L’indignazione sociale che nasce da questa convinzione non trova però soluzione perché l’oggetto a cui si rivolge è molto vago. La vaghezza è un’altra caratteristica importante del risentimento e spiega perché possa essere direzionato facilmente dai leader populisti per emergere e vincere.

Il problema non è la ricchezza stratosferica nelle mani di pochi, ma diventa l’arrivo di migranti che tolgono risorse senza averne diritto. È la risposta sbagliata a problemi reali, perché non li risolve e, per di più, produce forme di potere autoritarie e indifferenza morale.

Qual è la funzione del risentimento sociale? È una funzione difensiva nei confronti di una realtà che non ha più validi punti di riferimento, che produce incertezza, deprivazione e smarrimento dell’identità personale. La società occidentale si sente, oggi, sotto assedio. Per questo motivo, aumenta il desiderio di ordine, di sicurezza, di stabilità e cresce un atteggiamento mentale caratterizzato dalla difesa del proprio spazio vitale cioè da un “sovranismo psichico” (così definito dal 52esimo rapporto del Censis) che può sfociare in rabbia e cattiveria verso gli altri, fino a mettere in discussione le basi stesse della democrazia liberale.


Anna Colaiacovo


In apertura: Brandon Lee in "The Crow" - "Il Corvo", 1994
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8 gennaio 2025

Creatività, elogio con cautela

• Augusto Cavadi •


Filosofia per la vita - Augusto Cavadi sulla creatività
Parole come “creatività” occupano, semanticamente, il filo sottile fra due vuoti: la banale genericità dell’ovvio, da una parte; l’elitaria eccezionalità, dall’altra. Infatti ci ripetiamo ora che creativi lo saremmo tutti ora che lo sarebbero alcuni geni canonizzati. Questa polarizzazione non mi convince. Per evitare di dire, con il medesimo vocabolo, troppo o troppo poco può riuscire istruttiva la chiave ermeneutica (di origine aristotelico-medievale) dell’analogia: creativi lo siamo tutti i viventi, ma ognuno a modo suo, in parte simile e in parte (ancora maggiore) dissimile da ogni altro vivente.

Le formiche della villa comunale manifestano, indubbiamente, creatività nel costruire il formicaio; ma una creatività che somiglia soltanto, senza uguagliarla, alla creatività degli architetti della Firenze rinascimentale. In entrambi i casi dei soggetti trasformano una materia donando emergenza a qualcosa di novum, di inedito; ma il grado di questa novità non è il medesimo. Il ruolo della soggettività autrice, infatti, può andare da livelli minimi – per cui si riproduce nei secoli un prodotto pressoché uguale – a livelli massimi di originalità, sino alla vera e propria unicità irripetibile, inimitabile.

Se adottiamo questa griglia interpretativa non è difficile riconoscere nella categoria “creatività” una costellazione di qualificazioni positive, al punto che spesso usiamo l’aggettivo “creativo” in un’accezione immediatamente laudativa.
La vita dei singoli e le vicende dei popoli scorrono di solito con monotona ripetitività, per cui risulta spontaneo salutare con compiacimento ogni gesto che introduca qualcosa di “nuovo sotto il sole”: il combinato disposto di tradizionalismo e di conformismo costituisce una cappa di grigiore omologante insopportabilmente soffocante.

Contro la divinizzazione della creatività
Come tutti i valori, anche la creatività è esposta al rischio dell’acritica enfatizzazione retorica. Peggio: se assolutizzata, può capovolgersi in disvalore. D‘altronde, se è uno dei modi in cui si manifesta l’intelligenza, non c’è da stupirsi che ne condivida l’ambivalenza: di per sé è un bene, ma ne possiamo fare un uso spregevole (specie quando la disconnettiamo dall’insieme delle nostre potenzialità umane: come notava Chesterton, c’è una forma di pazzia che consiste nel perdere tutto tranne la ragione).

Le serie televisive ‘gialle’ statunitensi abbondano di esempi spiazzanti di creatività criminale: suppongo che non tutti siamo d’accordo nel considerare un’abilità ammirevole inventare metodi inediti di tortura di vittime innocenti. In campi un po’ meno perniciosi, come il marketing, assistiamo nelle tecniche pubblicitarie a manifestazioni di creatività originale di cui faremmo volentieri a meno per rispetto della nostra salute fisica (quando mirano a farci ingurgitare alimenti poco dietetici) o dell’immagine pubblica della donna (quando viene rappresentata come merce apri-pista di altre merci).

Tra intellettuali e artisti finalizzare la creatività all’originalità può diventare un’ossessione oscillante fra il patetico e il ridicolo. Già nel Settecento Rousseau stigmatizzava la tendenza di numerosi suoi colleghi a voler apparire a tutti i costi diversi dagli altri. Tutti noi abbiamo nella cerchia dei nostri conoscenti qualcuno che interviene nelle discussioni prima di tutto, o addirittura esclusivamente, per contestare un’affermazione, prenderne le distanze, proporre un’alternativa: come se riconoscere la particella di vero nelle opinioni altrui fosse indice di scarso acume critico! E ai primi anni di università uno dei miei docenti di filosofia, Armando Plebe, diceva – e scriveva – che il filosofo dev’essere come il clown che irrompe in un contesto spiazzando gli astanti con trovate inaspettate. Un suo collega, Nunzio Incardona, non teorizzava questa strategia stupefacente, ma la praticava: le sue lezioni, come i suoi testi, erano zeppe di neologismi fantasiosi collegati da una sintassi ardita.

Bertold Wald ha riferito, a proposito di un pensatore importante nella mia formazione, Joseph Pieper (“per l’alta tiratura dei suoi scritti e l’ampio numero delle traduzioni, egli è il filosofo tedesco più letto del ventesimo secolo”), che nella cerchia dei discepoli di Martin Heidegger (dove “bizzarria speculativa e stravaganza terminologica venivano e vengono ancor oggi considerate come segno distintivo dell’argomentare filosofico”) si diceva: “Joseph Pieper? Tutti lo capiscono – questa non è filosofia”.

Spero sia chiaro che non sto tentando alcuna apologia della banalità. Sto solo denunziando alcuni metodi truffaldini per camuffarla, come appunto la creatività apparente. È pacifico che per dire cose nuove si debbano (e dunque si possano) creare parole nuove; ma è disonesto intellettualmente inventarsi parole nuove solo per non far notare di dire cose vecchie. Tra l’altro è un trucco superfluo perché anche le cose antiche possono essere dette creativamente se usiamo le parole antiche con autenticità, avendole incarnate e ri-create. Già: è importante sottolineare il nesso autenticità-creatività-originalità. Proverei a formularlo in questo modo: quando si crea con autenticità (cioè con fedeltà alla propria ispirazione) si risulta comunque originali. Aggiungerei che l’originalità (che può – non: deve – risultare esotica, extra-ordinaria) è in ogni caso un effetto collaterale, non un obiettivo da perseguire in se stesso.

Dopo aver citato Luc de Clapiers de Vauvenargues – “Un libro davvero nuovo e davvero originale sarebbe quello che facesse amare vecchie verità” – Pierre Hadot così chiosa: “Ci sono verità di cui le generazioni umane non giungeranno mai a esaurire il senso; non che siano difficili a capirsi, al contrario sono estremamente semplici, spesso hanno persino l’apparenza della banalità; ma precisamente, per comprenderne il senso occorre viverle, occorre rifarne incessantemente l’esperienza: ogni epoca deve riprendere questo compito, imparare a leggere e a rileggere queste «vecchie verità»” (per questa citazione, e le precedenti di questo paragrafo, rimando al mio La filosofia come terapia dell’anima. Linee essenziali per una spiritualità filosofica, Diogene Multimedia, Bologna 2019, pp. 131–135).

Non so se ci attende un Aldilà in cui ciascuno conserverà la memoria della propria storia, ma so che – se così fosse – ci sarebbe da divertirsi lungamente nello scoprire che la creatività narcisistica ed esibizionistica di un Vittorio Sgarbi è solo la parodia della creatività di quelle migliaia di insegnanti di arte che, ogni giorno come se fosse per la prima volta, hanno parlato di bellezza artistica ai loro alunni con amore sincero e competente. E solo per questo sono stati in grado di contagiare la propria quieta passione.

L’humus (nascosto) della creatività
Talora la nozione di creatività si oppone a nozioni che ne denominano invece dei presupposti irrinunciabili.
Un caso tipico è l’opposizione creatività/tradizione. Non c’è creatività senza innovazione e dunque senza tradimento di ciò che si è ricevuto in eredità. Ma è proprio il patrimonio (materiale e simbolico) tramandato che può suscitare dialetticamente l’inventiva. Chi è privo di memoria rischia di scambiare per creazione inedita ciò che è già stato visto, criticato, superato: di sbandierare come proprio merito “la scoperta dell’acqua calda”.

Abbastanza simile l’opposizione creatività/tecnica. Dal Rinascimento italiano del Cinquecento in poi abbiamo imparato a distinguere il diligente artigiano, che padroneggia tecniche faticosamente apprese, dal fantasioso artista che fa saltare il tavolo e impone nuove regole di gioco. Ma quando si ascoltano questi rivoluzionari si apprende – come si esprimeva ad esempio Picasso – che ci vuole una vita per imparare a dipingere con la spontaneità creatrice di un bambino. Solo chi ha avuto la pazienza di seguire le prescrizioni canoniche può trasgredirle efficacemente: nessun aereo decolla senza aver accettato di strisciare terra-terra su una pista per tutto il tempo necessario.

Creatività ad intra
Sinora abbiamo riflettuto sulla creatività ad extra, come attività transitiva. Essa presuppone, per certi versi, e contribuisce a realizzare, per altri, la creatività ad intra: l’auto-creatività. E’ vero infatti che l’azione è effetto e manifestazione di ciò che si è (agere sequitur esse); ma direi essere altrettanto vero che si è ciò che le nostre azioni – specie se ripetute – ci rendono (esse sequitur agere). Siamo originariamente e radicalmente “dati” – donati – a noi stessi, ma non in un assetto definito al punto da essere esonerati dal plasmarci, dal ri-formarci, dal co-crearci.

Neanche questa accezione soggettiva, personale, di creatività va mitizzata. Da una parte dobbiamo essere fieri di ciò che siamo diventati: non dobbiamo vergognarci delle nostre caratteristiche peculiari, della nostra originalità, e immergerci nella massa per mimetizzarci. Si ricorda come molto saggia la richiesta dell’attrice Anna Magnani a un suo truccatore: “Lasciami tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una. C’ho messo una vita a farmele!”. Tuttavia questo sano orgoglio di essere ciò che si è – e se è il caso di pagare in termini di emarginazione la propria inventività pionieristica, catacronistica - non deve necessariamente includere tutti i propri difetti, specie se dai risvolti oggettivamente – e socialmente – sgradevoli. Da qualche parte mi è capitato di leggere: “Sei unico, sii te stesso! Ma se capisci che sei uno stupido, non insistere”. Uno stolto che, creativamente, si eserciti ad esserlo ogni giorno di meno non perde di originalità: si limita a modificarne i tratti. Da ex-insipienti si può essere unici come, e più, che da insipienti.


Augusto Cavadi


Da: “Le nuove frontiere della scuola”, n.65, Dicembre 2024, pp. 9–12
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